Scritta scorrevole

"Go as far as you can see, when you get there, you'll be able to see further" (T. Carlyle)

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Insegnante di inglese appassionata di scrittura e di fotografia e profondamente innamorata degli animali. Questo blog è un ampio rifugio in cui condivide passioni, letture, riflessioni, novità sui suoi libri e molto altro. INSTAGRAM: @simona_giorgino (profilo autrice), @photosfromthewind (profilo fotografico).

martedì 28 dicembre 2010

Un pensiero


















Ti posi nella mia fantasia –
così delicatamente –
fossi quasi rugiada su un fiore –
e dolcemente rasenti il mio cuore.
Quasi la vita darei – o i miei sogni –
affinché tu fossi molto più –
di un pensiero.


S. Giorgino, 08/10/2010

Ti odio, Filomena

Riguardo quello che ti ho detto in tutto questo tempo, e riguardo quello che ho fatto per te, dimentica, dimentica tutto, voglio fingere di non essere mai esistito per te, di non averti mai detto niente, di non averti mai chiamato amore, di non aver inventato per te, per te sola, un piccolo mondo in cui farti stare bene. Già, tu volevi di più. Me lo facevi capire sempre, e questo non ti stava bene, e quest’altro neanche, e non ti andava giù la cenetta al ristorante, e non volevi vedere questo film, e non volevi startene lì a sbaciucchiarci, e non volevi che ti tenessi le mani, e niente ti stava bene, e perché? Non me lo hai mai spiegato. Dimentica, dimentica che sono stato tuo, e che tu sei stata mia, dimentica le rose che ti ho fatto arrivare in ufficio, sotto gli occhi delle tue colleghe che stavano a guardare, tutte invidiose di un mazzo di rose enorme, avrei voluto vedere i loro volti. Già, quel bell’avvocato dagli occhi verdi in giacca e cravatta che manda delle rose a questa povera segretaria seduta dietro la sua triste scrivania, e perché? Perché povera segretaria? Tu avevi tanto dentro, tu hai tanto, hai maledettamente tanto. Ma si, forse hanno ragione loro, povera, povera sei, povera di capacità d’amare, povera di capacità di ringraziare, fallisci ad ogni minimo tentativo di innamorarti. Non ce l’hai un cuore, tu. Che cosa sei? Mi guardavi, e io speravo che dalle tue pupille sgorgasse un miraggio, quello di te innamorata, foss’anche un miraggio solamente. Poi mi accarezzavi, e le tue mani sapevano di buono, di morbido, di soffice, le tue dita scivolavano tra i miei capelli, e mi facevi sentire quel tuo calore che non ho mai sentito in nessuna donna in vita mia, quel calore tipico di una donna che ama, e io mi sentivo fortemente amato da te. Guardavo dentro ai tuoi occhi e ci vedevo una dolcezza infinita, tanto che adesso stesso, dopo tutto, nei miei ricordi quella dolcezza è rimasta e non se ne vuole andare via, anzi mi fa venire mille dubbi, che sia stato io a non aver capito, che sia stato io ad aver interpretato male tutto, che sia stato io il demonio e tu l’angelo. Ma me lo hai detto, no? Che non mi ami. Me lo hai detto, non me lo sono sognato. Sei stata tu a dirmi, qualche giorno fa, che non ti riesci ad innamorare, che così non può andare avanti, che ti senti piccola per me, che sei spaventata dal modo in cui io mi pongo nei tuoi confronti, ma come mi pongo? Devo amarti di meno? Non devo mandarti rose in ufficio? Non devo chiamarti cinquanta volte al giorno? Mi hai anche detto che hai tanto da fare e ora nella tua vita non c’è posto per una storia seria e per me, come fossi un soprammobile da appoggiare su uno scaffale carico di roba, che poi basterebbe spostare qualche oggetto per farmi un po’ di spazio, non credi?, e io ti ho risposto… cosa ti ho risposto? Ti ricordi? Ti ho risposto, “Fa’ ciò che vuoi, sei libera, tutto sommato mi hai rubato le parole di bocca” e te l’ho detto con quell’aria di uomo superbo, di un uomo che non ha proprio niente da perdere, facendoti credere che se non mi avessi lasciato tu, lo avrei fatto io. Già, io, sempre insicuro e un poco orgoglioso, tanto che non volevo farti capire che avevi vinto e stravinto su di me, che avevi combattuto su di me la tua piccola battaglia d’amore e l’avevi pure vinta. Ero completamente caduto ai tuoi piedi, stremato, sconfitto dalle tue armi, ma non volevo fartelo capire, soprattutto adesso che era finita. Ma lo sai, no?, che io non ti avrei lasciato mai, perché sullo scaffale della mia vita c’è tanto, tanto spazio per te, come nel mio cuore. Ma no, che dico?!, non ce n’è più di spazio ormai, tranquilla, ti ho cancellata per sempre, basta, non esisti più, o almeno è quello che sto cercando di fare. Non esisti più, perché sei una maledetta bugiarda, perché sei una maledetta donna bellissima di cui mi sono perdutamente innamorato e che non riesco a cancellare dai miei pensieri, perché sei una maledetta vigliacca che è fuggita dai suoi propositi, e soprattutto perché sei una maledetta senza cuore, ché tutto mi diceva di te che eri innamorata, perfino la luce nei tuoi occhi me lo diceva, e invece tu ti risolvi con una frase che cancella e distrugge tutto in un solo istante, “Non ti amo”, e allora i tuoi occhi sono dei bugiardi? O sei tu, la bugiarda? A chi devo credere, ai tuoi occhi, ai tuoi gesti, o alle tue parole? Ma ora non più, eh no, dolce mia, ora non più, eh! Ora io ti dimentico, cara, e ti faccio vedere che proprio non ti amo più, che sei scomparsa dalla mia mente, e che mi sono riempito il mio scaffale di tanti altri bei soprammobili.
Dimentica che ho provato a farti mia, dimentica che ci ho provato. Vorrei che tu leggessi nei miei occhi adesso, per vederci quanto amore ancora c’è… Ma no, che dico?! Io ti odio, Filomena.

S. Giorgino

La ricerca di mercato

“Net, buongiorno”
“Sono Maria Rossi, chiamo per conto di RdM, un istituto di ricerche di mercato, potrei porgerle delle domande a fine statistico sulla telefonia della sua azienda?”.
Mi sento strana. È come se conoscessi questa voce che mi ha risposto dall’altra parte del telefono. Mi sento imbarazzata, ma può essere mai? E’ una voce calda, bassa. Lui è un uomo calmo, molto disponibile. Ha interrotto il suo lavoro per concedermi l’intervista. Ma chiamo nell’Emilia Romagna, è impossibile che sia lui. Cosa ci farebbe in una ditta dal nome “Net”, nell’Emilia Romagna? Beh, ammetto che in verità non mi sono più preoccupata di chiedere notizie di lui. Potrebbe essere in qualsiasi parte del mondo adesso, tanto non lo saprei. Sono anni che ormai non so più niente di lui. Tre anni, per la precisione. Avevamo perfino cambiato i nostri numeri di telefono, e non avevamo più avuto modo di sentirci. Io sono scomparsa dalla sua vita senza interessarmi più di niente, se non del mio futuro, delle mie aspirazioni. Del mio egoismo. Paolo… lui è rimasto solo un ricordo, niente di più, una storia vissuta, un periodo della mia vita piena zeppa di ricordi. Eppure, chissà perché, dopo anni ancora, talvolta, mi scopro a pensarci. Forse, in verità, non ho mai accettato del tutto la fine della nostra storia.
“La informo che l’intervista resterà anonima nel rispetto della legge sulla Privacy 196/03”.
Mi sento imbarazzata. Mi rendo conto di essermi ormai convinta di star parlando davvero con Paolo. Vorrei chiederglielo, ma mi blocco… risulterei ridicola, si, a dir poco ridicola. Cosa potrei dire? Lei si chiama Paolo? Siamo stati per caso insieme tre anni fa? Riderebbe di me. Meglio tacere. È sicuramente la mia immaginazione. O semplicemente una voce, un accento, un tono completamente uguali a quelli di una persona che conosco. Tutto qui. Basta paranoia. La verità è che da quando lavoro qui ho sempre avuto paura di poter comporre un giorno il suo numero, di chiamarlo… di ritrovarmi di nuovo a parlargli. Il fatto è che lasciarci non era stata una nostra scelta. La vita aveva scelto per noi. Le telefonate avevano iniziato a diminuire col tempo, quando invece nei primi mesi della nostra forzata lontananza ci sentivamo tutti i giorni, e più volte al giorno. Lui veniva anche a trovarmi spesso, nei fine settimana. Non gli mancava mai l’occasione di andare alla TravelCost, la sua agenzia viaggi di fiducia, e comperare un biglietto per il treno. - Sono stato da TravelCost - , mi diceva al telefono, e io capivo già che il giorno dopo sarebbe arrivato da me, con le sue valigie piene di regali, con i suoi occhi grandi, con i suoi abbracci forti, e i suoi baci smaniosi. Questo, ormai, col tempo, accadeva molto più di rado. Ad un certo punto, avevo anche iniziato ad avere il sospetto che si fosse innamorato di un’altra donna. Anche lui aveva di me lo stesso sospetto. Ma io, no, non mi ero innamorata di nessuno. C’era un amico, si, nella nuova città, un amico più speciale, e forse, a dire il vero,  un po’ ne ero attratta. Ma Paolo rappresentava per me un punto di riferimento, era una persona troppo importante e la sua importanza non era venuta certo meno per via dei chilometri che ci separavano, e non lo avrei mai tradito. Tuttavia, era stato il destino a tradire noi. Arrivavano puntuali le nostre paranoie, ormai, tutte le sere, al telefono. Lui mi rimproverava di tradirlo, io di comportarsi da uomo immaturo. La lontananza non stava giovando al nostro rapporto. Non so neanche dire il momento in cui, precisamente, la nostra storia è finita. Probabilmente non ce lo siamo neppure detti apertamente. Lo avevamo semplicemente capito, percepito.
“Possedete linee mobili aziendali, intestate alla partita iva?”
Di nuovo il sospetto che sia Paolo mi rende imbarazzata. Attendo la sua risposta, per studiarne la voce.
“Si”, dice. Lo dice con un tono particolare, il tono che solo un conoscente potrebbe usare con me, non un intervistato qualunque.
“Possedete l’ADSL in azienda?”
“Si… Maria”
“Il vostro collegamento Internet è di tipo WiFi?”
“Si, Maria, è di tipo WiFi, lo è da poco”
Mi concedo un attimo di pausa, per fare un profondo respiro. Solo lui mi chiamava Maria con quella dolcezza nella voce. Questa è la voce di Paolo, ne sono certa, sebbene un po’ camuffata dal raffreddore, ne sono certa, questa è la voce di Paolo.
“Da quanto tempo lavora in questa azienda, signore?”
“Due anni e mezzo, Maria. Sono partito anche io, qualche mese dopo”
Rimango in silenzio. Ecco, non ho più dubbi che sia lui, ma non ho neanche il coraggio di dire qualcosa che non sia sullo script che devo pronunciare.
“Con quale provider avete sottoscritto il contratto Internet?”
“Sono partito perché non avevo più motivo di rimanere a Manfredonia. Insomma…”
“Con quale gestore… avete… Internet?”
“…anche tu eri partita. Ho approfittato di questa proposta di lavoro. Mettermi in società”
“Saresti potuto venire da me”
“Volevo dimenticarti”
Restiamo per un attimo in silenzio. Non so cosa dire. Il cuore mi batte forte. Rimango per un istante a fissare il monitor del computer, fermo sulla domanda G6, il mouse puntato su una delle risposte che dovrei flaggare. Ma non aspetto più una risposta alla mia domanda sul provider Internet, aspetto una risposta sul perché non fosse venuto da me. Perché non mi aveva neanche avvertito, che stava partendo? Che la sua vita stava cambiando? Che aveva ricevuto questa proposta così importante? Ma cosa mi aspetto? Era finita. Tra me e lui era finita. Io non ero più niente per lui, non ero più niente nella sua vita. Perché pretendo di essere importante per qualcuno anche quando non faccio più parte della sua vita?
“Perché?”, ripeto.
“Mi era parso che non volessi più sentirmi. Era finita, Maria, vero?”
“Si”, rispondo in tutta fretta. Ma in realtà non sono convinta di questa mia risposta. Era finita veramente? O era stata la vita a decidere per noi? Perché dopo tanto tempo ancora mi scopro a pensare a lui? Perché, poi, lo penso con un sorriso? Non ho mai pensato a Paolo con rabbia, o astio. Ma solo con un sorriso. Con rimpianto, forse, quello si. Non eravamo stati abbastanza forti da reggere la distanza.
“Come te la passi, lì, Paolo?”
“Bene, e tu? Fai le ricerche di mercato, adesso?”
“Si”
“Ho incontrato una persona”
“Anch’io”
“Sei felice?”
“Forse, e tu?”
“Forse”
Le nostre voci sono basse, calde, affettuose. Vogliamo sapere l’uno dell’altra, ma sappiamo di avere poco tempo a disposizione. Sappiamo, inoltre, che non ci sentiremo più. Che abbiamo ormai due vite diverse.
“Lei lavora con me in azienda, sai, così…”
C’è incertezza nella sua voce. C’è voglia di dirmi di sé, come se volesse farmi capire che, però, la sua nuova vita è imparagonabile a quella che aveva vissuto insieme a me, e che nel tempo anche lui ha capito che qualcosa è rimasta irrisolta, è rimasta come sospesa a mezz’aria.
“Maria…”
La dolcezza di quella voce… mio Dio, mi riporta indietro nel tempo, alle nostre telefonate, alle lunghe conversazioni nei pomeriggi di primavera, seduta sul balcone della mia stanzetta, a guardare le macchine passare giù, con la sua voce calda e profonda nei miei orecchi. - Sono stato da TravelCost - , e la mia gioia, indescrivibile, si diffondeva come una droga nelle mie vene, in tutto il mio corpo, urlavo di felicità. - Non vedo l’ora di abbracciarti, amore mio! - .
“Maria…”
Non posso più ascoltarlo, no, è inutile, è solo una ricerca di mercato, tra qualche minuto devo interrompere, chiudere questo telefono, e fingere di non averlo mai sentito, di non sapere niente di lui. Già, forse sarebbe stato meglio non sapere mai più niente di lui. Ora invece so. So che ha una donna, che è in Emilia Romagna, che è diventato socio di una ditta dal nome “Net”. Ma preferivo non sapere niente.
“Maria…”
“Devo concludere l’intervista, Paolo”, dico freddamente. “Avete servizi di POS collegati con la rete fissa?”
“Si”
“Avete rete Extranet?”
“No”
“L’ultima domanda: Avete linee dedicate alla sola trasmissione di dati?”
“No”
“L’intervista è conclusa. La ringrazio per la sua cortesia”
“Maria… io non avrei… non volevo che andasse così”
“Neanch’io, ma a che serve, adesso, dirselo?”
“Già…”
Incertezza nella sua voce, indecisione, esitazione. Come se volesse dire tanto altro.
“Grazie Paolo, ciao”

Sono provata, ma cerco di non darlo a vedere. Per fortuna nessuno ha sentito la mia conversazione. Guardo per un momento il display del telefono. Basterebbe fare “redial” per richiamarlo, dirgli che io non ho cambiato casa da allora, che sono sempre lì, al solito numero civico, e che mi sono laureata, e che questo delle ricerche di mercato non è il mio unico lavoro, che sono finalmente una web designer come desideravo da sempre, e che sto insieme a una persona con cui condivido molti bei momenti, ma che penso ancora sempre a lui e a questa storia interrotta. Vorrei chiamarlo e dirgli che forse potremmo rivederci, potremmo raccontarci un po’ di noi. Fisso il display ancora per qualche secondo: se compongo il numero del prossimo cliente a video, il suo sarà irrecuperabile ormai. Già, una storia interrotta. Mi sembra che qualcosa sia rimasto in sospeso nell’aria. Sono ancora incredula. Era davvero lui? Ho davvero parlato con lui? Tra mille numeri, proprio il suo, e tra tante colleghe, è capitato proprio a me chiamarlo. Risento ancora la sua voce nella mia mente, “Maria…”. Ha un’altra donna, ha un’altra vita. Io ho un altro uomo. E anche se mi sembra che la mia vita al momento abbia perso tutta la sua importanza che ero riuscita a darle, anche se mi sembra che quei pochi istanti al telefono abbiano cancellato tutto questo tempo in cui mi sono rifatta una vita, so che tornerà tutto come prima. Paolo rimarrà un ricordo, proprio come pochi minuti fa. Rimarrà una voce dall’altra parte del telefono. Rimarrà quella storia sospesa in mezzo alla mia vita, un puzzle mancante di un pezzo, si, ma chissà, chissà dov’è quel pezzo.

S. Giorgino

venerdì 24 dicembre 2010

All I want for Christmas...... is you!!!




Non è il video ufficiale, ma la canzone almeno è quella!

Un felice Natale... d'Amore!

Sbaglio a dire che l'Amore è molto probabilmente il motore della vita? Amore inteso in ogni sua sfaccettatura possibile. Amore per il partner, per la famiglia, per l'amico. Non possiamo vivere senza sentimento. Anzi, possiamo fingere di farlo. Ma vivremmo male. Perché l'uomo è fatto capace di amare ed è difficile che vi rinunci. Nessun uomo può mai considerarsi "incapace d'amare". E' possibile, si, che l'amore resti spento dentro di noi, anche a lungo, ma non scompare mai del tutto. E' sempre lì, pronto a rinascere, come una lampadina spenta, che basta premere l'interruttore per riaccenderla.

Quest'anno, questo cuore rosso tra le mani è il simbolo del mio Natale, e auguro a tutti che possa esserlo anche per voi.
E, nel fargli i miei auguri, gli ho voluto dedicare una poesia che avevo proprio scritto ispirandomi alla sensazione che ho di lui, e di noi, dal titolo "Semplicemente".

Oggi – tutto il resto assume spessore –
tutto sottoposto ai miei se –
tranne te.
Tu – ne sei semplicemente
parte indiscutibile –
come quel tassello che si posiziona
lì – di diritto –
e non abbisogna domande.

Nessuna parola esprime il tuo valore.

Semplicemente

la vita mia è la tua.


S. Giorgino


BUON NATALE A TUTTI!

giovedì 23 dicembre 2010

L'amica di Alisa

Niente male questa serata. Si sentono i grilli al di là della strada, nella campagna che si distende di fronte a noi, e sulla pelle percepisco un fresco piacevole, ché non mi alzerei più da questo muretto. Karla canta una canzone stonata mentre si guarda nello specchietto, sforzandosi di vedersi bene in questa sera dove un unico lampione sopra di noi ci illumina i volti e ci permette di riconoscerci l’una con le altre, nel buio. “Sta’ zitta, cazzo!”, sento urlare da lontano. “Calmati, Hanna! Non sono più libera neanche di cantare?”, risponde Karla, con un risolino isterico, con il tono della voce alto quanto basta per farla giungere dall’altro lato della strada, mentre intuisco che Hanna da lontano le stia piantando in viso due occhi severissimi. Pare che Hanna abbia un certo potere su noialtre. Sono qui da tre giorni soltanto, ma ho potuto capire che nel gruppo esista una sorta di gerarchia. Infondo è giusto così, ci deve essere qualcuno che prenda le redini, altrimenti saremmo come tante pecorelle smarrite che non sanno in che direzione andare. E poi, debbo anche riconoscere che è grazie a lei se Alisa è riuscita a trovare questo lavoro per arrotondare il suo misero stipendio di pianista, e di conseguenza anche io, quindi dobbiamo solo ringraziarla e molte di noi portano nei suoi confronti un rispetto assoluto che non osano mai tradire. Ad un certo punto, Karla, che intanto ha smesso di cantare, si avvicina a me con aria curiosa. Mi chiede chi sono, e mi sento imbarazzata perché sono qui da tre giorni e non mi aveva neanche notata. Hanna, senza farmi aprire bocca, con tono di sfida, le urla: “Torna al posto tuo, è un’amica di Alisa”. Alisa è qui accanto a me, e le va sempre meglio di tutte. È brava Alisa, sa farci, con quel suo accento straniero e il suo italiano incerto, con la sua chioma ricciuta e biondina, i suoi occhi celesti, la sua bocca rossa e carnosa, che non le dà, però, un aspetto volgare. Per niente. Ha un viso angiolesco, dolcissimo e i suoi modi la rendono addirittura elegante. Mi pare di vederla intenta a suonare il pianoforte, come quando l’ho vista qualche sera fa, al Bistrot. Elegante nella sua vestina celeste, di seta delicata, che le scivolava leggera sulle gambe, lasciando intravedere due polpacci pronunciati e scolpiti, i suoi sandali dorati, i piedi delicati e bianchi che teneva uniti, uno accanto all’altro. Le sue mani altrettanto delicate, dalle dita lunghe e affusolate, scivolavano dolcemente sulla tastiera. Ero rimasta incantata dalla melodia che proveniva da quel suo esperto suonare, una melodia soave che riempiva tutto il Bistrot. Mi pare di rivedere anche le persone sedute ai tavolini, a mangiare le loro pizze e bere i loro alcolici, tutti persi nei loro discorsi, intenti a coprire il suono del pianoforte che non permetteva di capirsi bene l’uno con l’altro, mi parevano così indifferenti, tanto che neanche un applauso le avevano fatto al termine della sua performance. Ecco, il talento non è mai apprezzato abbastanza, non quanto, per esempio, un corpo venduto. Alisa si era alzata, nella sua vestina delicata che ora si allungava quasi fino alle caviglie nascondendo i polpacci, e senza guardarsi intorno aveva chiuso il pianoforte e si era affrettata ad uscire dalla sala. Nessuno l’aveva vista, nessuno si era accorto che la pianista fosse uscita di scena. Se si fosse messa a spogliarsi nuda al centro della sala, allora si sarebbero accorti di lei. Ma io non me la sono fatta sfuggire ed è proprio così che ho conosciuto Alisa, seguendola fuori dal Bistrot. Non era una serata favolosa, per me. Rachid mi aveva appena annunciato che sarebbe ritornato in Marocco, dopo tante promesse non mantenute, lasciandomi senza niente, oltre che il mio corpo usato e gettato. Camminando per tutta la città, mi ero imbattuta per caso in questo localino di periferia, anche se non avevo soldi con me, perché Rachid si era portato via tutto, perfino la mia anima, ormai. “Sei stata bravissima!”, le avevo esclamato. Lei si era seduta su un muretto a secco che separava i parcheggi per le auto dall’ingresso al Bistrot ed aveva acceso una sigaretta, prima di guardarmi fissa con aria interrogativa. “Grazie”, mi aveva risposto, un semplice grazie, ma non posso dimenticare il suo sguardo attento a seguire quello che le dicessi dopo, perché mi ero messa a raccontargli tutta la mia storia, Rachid e la mia sfortuna ad averlo incontrato, il modo in cui mi avesse privato di tutta la mia libertà, il modo in cui io fossi stata obbligata a fare qualcosa che, lì per lì, all’inizio, non mi era gradevole, fino a quando ero poi arrivata a pensare che, infondo, non è niente male, che è un mestiere che mi piace perfino, e Alisa sembrava capirmi benissimo. Le confessavo i miei dubbi che avevo avuto nei primi giorni, quando mi guardavo allo specchio senza riconoscermi, vedendo nel riflesso una ragazza completamente cambiata, e la notte, nelle preghiere, rivedevo la mamma e i suoi occhi rigonfi di lacrime, che avrebbe pianto, per certo, anche nella realtà, se fosse stata ancora in vita. Ma quei tempi sono passati, ora sono diventata avvezza, mi hanno fatta diventare avvezza. Raccontavo tutte queste cose ad Alisa come se la conoscessi da sempre. Una sola cosa mi aveva detto, quella sera fuori dal Bistrot: “Io posso aiutare”, nel suo accento straniero. Allora, in un italiano impreciso, si era messa a raccontarmi di Hanna, di non so che giro di soldi che avrebbe potuto risolvere anche la mia situazione di miseria, come l’aveva risolta a tante. Ecco, ora la guardo e provo per lei una grande gratitudine, perché mi ha risollevata quando credevo che per me non ci fosse più via di uscita. Mi ha messa sulla strada, ridandomi quello di cui Rachid, andando via, mi aveva privata. Quale poteva essere la via d’uscita, infondo? Mi fa comodo avere quei soldi.
“Tutto bene?”, mi chiede Alisa, che intanto si è seduta anche lei sul muretto al mio fianco, e mi addita la sigaretta come per chiedermi se voglio fumare. Le faccio cenno di no, perché non mi piace fumare e le rispondo che va benone, specialmente oggi che è già il terzo giorno e, poi, non sono proprio una novellina. Mi risponde che l’esperienza non è mai troppa e allora le dico che sono pronta ad imparare ancora. Intanto Karla ha ricominciato a cantare la sua canzone stonata e, proprio in quell’istante, una macchina si avvicina da lontano, a passo d’uomo, scorrendo lentamente lungo la strada dove ci siamo posizionate a distanze non troppo ravvicinate; ci sono due uomini in macchina, e ci guardano, mentre avanzano, come stessero guardando delle vetrine di abbigliamento per scegliere quale cravatta comperare. Karla continua a cantare, adesso anche più forte, per attirare l’attenzione dei due uomini su di lei, i quali invece avanzano ancora, fino ad arrivare dalle mie parti. Alisa si è alzata e si è allontanata da me. Mi sale un po’ di paura. E’ il terzo giorno che sono qui, ma non è mai troppa l’esperienza, come dice Alisa, ed ora sento salirmi un po’ di emozione, come fosse la prima volta. Mi viene quasi un sospiro di sollievo quando, per fortuna, scelgono Alisa e non me. La strada è silenziosa e non facciamo grande fatica, noialtre, a sentire quello che si dicono. Alisa è così carina, che la invidio. Vorrei essere lei, così esperta, così donna. Alisa sale in macchina coi due uomini e scompare dietro il curvone della strada. Mi viene per un poco l’angoscia di essere rimasta qui senza di lei, che è il mio punto di riferimento, dato che le altre non ho avuto ancora modo di conoscerle bene. Ma non faccio in tempo a riflettere sul modo in cui approcciare qualche altra, che intravedo un paio di fari infondo alla strada. Mi risale l’ansia. Sono certa che stavolta toccherà a me. Non so da dove e per cosa mi venga quest’ansia, ma credo sia la paura di non essere all’altezza, anche se i clienti avuti fino ad oggi non hanno pensato che io sia tempo sprecato. Mi hanno sempre pagata molto bene per i miei servizi. Sono grandi soddisfazioni. Questo vuol dire saper fare bene il proprio lavoro. Rimango ad aspettare che l’uomo nella macchina scelga a quale “vetrina” fermarsi. Con la luce dei fari non mi è facile capire da quale parte stia guardando. Ma eccolo che si ferma proprio di fronte a me, io mi avvicino al finestrino. “Ciao bella, mi fai tu… un po’ di compagnia?”, mi dice. Io rispondo che gli faccio compagnia volentieri e, come mi hanno insegnato le mie superiori, dico subito quanti soldi ci vogliono. Lui annuisce, dicendo: “Non ci sono problemi per i soldi”. Mi sento ridicola per aver subito parlato di denaro, specialmente a quest’uomo distinto che porta una cravatta, una camicia bianca, che sembra ben vestito ed ha una macchina mozzafiato. Ci salgo, non senza un forte batticuore, esattamente come le prime volte. Non sono ancora abituata ad avere dei clienti per strada. Rachid me li portava a casa. Rimango muta nei primi minuti, non parlo. Lui ogni tanto si volta verso di me gettandomi delle occhiate. Sono sicura stia pensando che io sia poco esperta e che sarò solo denaro sprecato. Infondo, sono così giovane che proprio non ce l’ho, l’aria di una puttana esperta. Ti faccio vedere io, bello, di cosa sono capace di fare. Una cosa che ho capito è che bisogna fare bene il proprio lavoro. Non voglio che i miei clienti rimangano delusi di avermi scelta tra tante. Gli metto una mano in mezzo alle gambe. Lui si volta a guardarmi, sorridendomi, e sento piano salire la sua eccitazione. Mentre mi diverto un poco con lui, lo guardo e mi accorgo, con i lampioni della strada che gli illuminano il viso, che ha i capelli brizzolati e qualche ruga sul volto. Porta una barba incolta, le labbra pronunciate e un anello all’anulare. Mi ritrovo a domandarmi se quell’anello sia una fede nuziale. Non so perché me lo domando. Infondo noi siamo qui solo per dare un po’ di piacere a uomini stanchi delle loro donne casalinghe, che invecchiano insieme ai programmi televisivi delle 21. Non sono fatti miei se quella sia una fede nuziale, e sperare che non lo sia non fa parte del mio mestiere, quindi distolgo lo sguardo dal suo anello, concentrandomi sul mio gioco.

Non è andata male, mi riporta quindi indietro soddisfatto, e mi lascia dove mi ha presa, così come si ripone nell’armadio la propria camicia sgualcita, prima di mettersi a letto. Mi saluta senza guardarmi in faccia, infondo non sa neppure come mi chiamo, a chi appartenga questo volto. Mi ha lasciato perfino una mancia consistente, oltre che, soprattutto, promettermi di tornare!! Quando raggiungo le ragazze, mi accorgo che Alisa è tornata anche lei e si è seduta sul muretto. Mi sorride non appena mi vede e io le annuncio felice che stasera mi sono fatta il mio primo cliente fisso. Lei è contenta e si congratula con me. Sono soddisfazioni… grandi soddisfazioni.

S. Giorgino

Il sergente Beccaria

“Cosa ha dichiarato, lui?”
“Nulla. Solo che è il capitano del reparto di Torre Sabaudo, ai colli”
“Dirà tutto a me, vedrai, quando lo interrogherò e lo guarderò negli occhi, puntandogli questa pistola alle tempie”. Parlava con orgoglio, il tenente Basso, facendo roteare tra le mani l’arma con cui avrebbe ucciso il suo più grande nemico. Erano entrati in guerra molte più volte di quante fossero state quelle ufficiali. Il tenente Basso e il capitano Montechiaro erano stati già rivali, in passato, ed in altre, diverse circostanze.
Il tenente non aveva mai dimenticato le ferite che il capitano gli aveva inflitto.
“Quando diventerai qualcuno, qui”, diceva al suo allievo sergente Beccaria, “allora saprai il valore, il significato della parola onore. Mi sono fatto onore nella mia vita. Sempre ho difeso i diritti dei più deboli, e sempre lo farò”
“Chi è il debole, oggi, tenente?”
“Io, sergente Beccaria. Il debole da difendere, oggi, sono io. Che ho patito per lui”, diceva, sfiorando con un dito il suo occhio ferito e ricoperto da una benda.
Il sergente lo aveva guardato con compassione, prima di pronunciare le sue ultime parole.
“Tenente, lei non ha mai pensato al perdono?”, e lo chiedeva pentendosi di averlo fatto, prevedendo già la risposta e il sentimento del suo interlocutore.
“Si”, rispondeva il tenente Basso, “Certo, sergente Beccaria, che ci ho pensato. Ma tu cosa faresti, al posto mio? Lo abbiamo catturato, è nelle nostre mani. Mi ha rubato metà della vista! No, che non lo perdonerei. Specialmente in tempo di guerra”.
Il sergente stava zitto, non aveva più le parole. Il tenente, invece, lui di parole ne aveva troppe. E parlò, parlò al sergente Beccaria per più di un’ora, parlò di sé e della sua sventura con il suo occhio destro.
Il sergente lo guardava, impietrito. Le parole “Mi ha rubato metà della vista” gli risuonavano nelle orecchie. Con odio, le aveva pronunciate, il tenente Basso. Con odio. Era sicuro, il sergente, che presto, questione di giorni, il capitano Montechiaro sarebbe stato ucciso con lo stesso odio con cui erano state pronunciate quelle parole.
Hanno insegnato ad ammazzare per la patria, a difendersi dagli attacchi del nemico. Ma una cosa, il sergente Beccaria, non l’aveva mai capita. Perché sul perdono non era mai stata spesa neanche una parola?

Il mattino seguente il sergente Beccaria si svegliò di buon’ora. Rimase a letto per un po’, con lo sguardo fisso nel vuoto, mentre i suoi compagni ancora russavano al suo fianco. Il vuoto gli parlava solo di una parola: perdono. Temeva, il sergente, e non sapeva neppure di cosa. Temeva di fare del bene per ricevere del male, ma più di tutto temeva il rimorso.
Solo metà, della sua vista, gli era stata rubata, non per intero. Un occhio ancora gli funzionava. La sua vita era stata comunque agiata, anche senza un occhio. Il tenente aveva una bella moglie, dei figli che andavano a scuola e prendevano dei buoni voti, una buona posizione sul lavoro. Non avere un occhio non gli aveva impedito di costruirsi una vita.
Il capitano Montechiaro aveva una moglie anche lui e, per quanto si potesse saperne, avrà potuto avere anche lui, quindi, dei figli dalla sua donna.
La vita era una condizione necessaria per entrambi. Per entrambi.
Cosa temeva, il sergente Beccaria? Temeva di aver saputo e, nonostante questo, non aver agito.
“Quando diventerò qualcuno qui, signor Tenente, quando io diventerò qualcuno qui”, avrebbe voluto dirgli “non parlerò solo di morte, di vendetta o di onore. Parlerò anche di perdono, di misericordia”, ma aveva finito le parole.

Si alzò dal letto con un solo balzo, s’infilò subito i calzoni, gli anfibi, la giacca a vento. Uscì per avviarsi ai colli che era ancora l’alba. Il cielo sembrava inghiottirlo tra il rosa e l’azzurro delle sue sfumature.
Arrivava a Torre Sabaudo che qualcuno, già, era in piedi. C’erano due guardie. Veniva accolto da una di loro e veniva interrogato circa la sua visita. Il sergente aveva portato delle informazioni importanti di cui avrebbe parlato solo al capitano del reparto.
Ci vollero pochi minuti perché questi arrivasse. Un uomo calvo, con il viso paffuto ed un sorriso beffardo.
Non si erano scambiati molte parole. Il sergente Beccaria aveva dato al capitano un biglietto con delle coordinate e delle informazioni precise e vitali.
“Perché lo fai, ragazzo?”
“Per misericordia, sir”
“Che Dio ti benedica. Questo, tuttavia, fa capire qualcosa: qui non è il tuo posto. Qui, in guerra poi, la misericordia pochi sanno cos’è. Non c’è tempo per amare il nemico, intesi? Imparalo bene. Qui, di tempo per amare il nemico, non ce n’è”.

Il sergente tornò alla base, prima che qualcuno potesse accorgersi della sua assenza.
Quando il capitano Montechiaro fu liberato dalla sua cella, nessuno lo vide. Le coordinate erano state perfettamente rispettate. Durante la cena presso la mensa, quella sera stessa, il tenente Basso ed il sergente Beccaria si erano incontrati per la prima volta dopo l’accaduto.
Non ci furono parole, ma solo uno sguardo, indifferente e intimorito da parte del sergente e malvagio, carico d’odio, da parte del tenente.
Una cosa non aveva ancora avuto il tempo d’imparare, il sergente Beccaria: non c’è tempo per amare il nemico, in certi casi. E questo, sicuramente, era uno di quei casi.

S. Giorgino


Amare diversamente

Se solo non conoscessimo
noi stessi – forse potremmo
amare diversamente.
Se riuscissimo a sradicare da noi
il mostro dell’umanità –
avremmo dell’altro maggior rispetto
e riconoscenza.
E se solo capissimo che non siamo
il riflesso di tutto il mondo –
potremmo credere nell’unicità dell’altro
ed amarlo diversamente.

S. Giorgino - 06/10/2010


Sottigliezza

Di un senso di – sottigliezza – mi
sono vestita, ancora di più,
 indossando abiti raffinati –
e perle bianche intorno al collo, gioielli
preziosi, parole d’onore
da una bocca profumata di rose –
Mi sono sentita grande e potente –
ma non ero niente.
Ancora, chiusa in una stanza,
potevo sentire il timore –
di essermi smarrita.

S. Giorgino - 27/08/2010

martedì 21 dicembre 2010

Scusami, Silvia

E’ incredibile. Siamo solo ad un passo l’uno dall’altra. Succede spesso, per la verità. Come sei bella. Così, da questa posizione, riesco a vedere anche meglio il colore dei tuoi occhi. Di un verde intenso. Un raggio di sole sfiora il tuo viso, rendendoti ancora più bella. Siamo così vicini. Adesso ti prendo il viso tra le mani, e ti bacio! Si, ti bacio! Ti bacio con passione, con un trasporto che non ti lascerà neanche il tempo per pensare o per respirare! Ma, come sempre, tu sei in grado di rovinare tutto. Ti discosti da me con fare da bambina, e mi metti il muso, mentre ti siedi sul bagnasciuga e stringi le braccia intorno alle gambe. Io rimango paralizzato, ti desidero tanto, ma ho capito: tu non hai ancora afferrato. Mi metti il muso perché mi rifiuto nuovamente di provarci. Come debbo fartelo capire? Non fare la bambina.
“Ti ho detto che lo faremo un altro giorno. Non oggi”. Ammetto che cerco sempre di rimandare. Non è la prima volta, lo so. Tuttavia, non sono capace di dirti che non lo farò mai, per paura di perderti.
Mi guardi arrabbiata e cominci a rimproverarmi, come al solito. Mi guardi di nuovo e mi dici: “Se continui così, dovrò lasciarti”.
Non hai capito niente, lo sapevo io. Sei una stupida birichina, mi lasci, mi lasci, mi lasci. Lo dici… da quanto tempo lo dici? Da circa un anno, per l’esattezza. Eppure non mi hai mai mollato.
Mi sale una rabbia! L’idea che tu vada sul serio mi fa diventare nervoso. In un certo senso, mi auto convinco che non saresti mai capace di lasciarmi.
“E stavolta davvero”, aggiungi, con tono severo, come per mettermi paura.
Ma paura di ché? Tu non puoi mollarmi, tu con me hai fatto un accordo! E sono certo che non mi lascerai se non avrai superato la prova. Mi rende nervoso ammetterlo, ma io per te sono una prova. Una prova umana. Mi usi per i tuoi scopi sul lavoro. Cosa devi fare? Devi avere una promozione?
Che stupido sono, non lo penso davvero, mi sto lasciando sopraffare dalla rabbia, di nuovo. Però, povero cretino, io, che nonostante tutto mi sono innamorato di te. Il cuore, lo sappiamo tutti, il cuore non possiamo mica fermarlo.

Per un momento rimaniamo in silenzio a fissare il mare. Poi tu ti alzi e mi lasci qui da solo. Cammini sul bagnasciuga, nella direzione opposta da me. Man mano che ti allontani, il sole sembra inghiottirti. Sembra portarti via da me.

Nella mia mente adesso ti sto raggiungendo, mentre corro a perdifiato, e quando sono a pochi passi da te ti grido alle spalle “Ti prendo!”. Tu ti giri, urli e inizi a correre più forte. Ma io sono più veloce e non ci metto niente ad afferrarti forte tra la mie braccia. Cadiamo sulla sabbia, stremati dalle risate, e incominciamo a baciarci e poi a fare l’amore.

Ma questo accade solo nella mia mente.
Nella realtà ti stai allontanando sempre di più, sei diventata quasi un piccolo puntino nero nel sole. Vorrei afferrarti tra le mani e farti mia per sempre.
Rimango qui a fissare il mare e a godere del calore del sole sulla mia pelle. Non c’è nessuno. La spiaggia è vuota. Per fortuna.

Solo dopo un’ora ti rivedo tornare. Quel piccolo puntino nero perso nel sole comincia a prendere man mano le sembianze di una persona. Di una donna. Una donna stupenda. Vedo le tue gambe, le tue braccia, i tuoi seni, i tuoi capelli. Sei meravigliosa davvero. Solo, però, sul tuo volto c’è un’espressione che non mi piace affatto. Sei triste, forse hai pianto. Ora che sei vicina vedo che hai gli occhi lucidi e rossi. Si, hai pianto. Muoio dentro a sapere che hai pianto per colpa mia. Per colpa mia che sono così stupido, così capoccione. Testardo sono! Non voglio capire e, allo stesso tempo, non voglio perderti. Mi chiedo, in questo breve frangente che mi divide da te, se non hai davvero ancora capito che ti amo. Davvero non l’hai capito? Rosalba, ieri, mi ha detto “Dille che la ami”. Io l’ho guardata esterrefatto. Le ho solo chiesto “Si vede molto? Che mi sono innamorato di lei?”.
Ecco, ora mi chiedo se davvero tu non te ne sia accorta. Se ne sono accorti tutti, e tu no?
Io ti sogno tutte le notti e ti desidero in ogni momento della giornata. Ma lo sai quanto fa male vederti tutti i giorni, averti così vicina a me, fisicamente, sentire le tue mani su di me, e nonostante tutto sapere che non sei mia?
Ora sei quasi arrivata, sei molto vicina. Vieni verso di me con i tuoi occhi ancora colmi di lacrime. Prima mi sfiori dolcemente la mano, poi me la prendi con più veemenza e mi fai cenno di alzarmi. Hai l’aria dura, di chi non si arrende e di chi, oggi, ce la farà per certo. Ma io so che non ce la farò. Vorrei dirti tante cose in questo istante, ma sicuramente più di tutto ti direi questo: non voglio fallire davanti ai tuoi occhi! Così capiresti tutto. Capiresti perché cerco di rimandare sempre l’esercizio. Non posso fallire con te! Non con te.
Ma mi costringi a provare. Io, di fronte a questo tuo sguardo duro, impenetrabile, adesso non sono più capace di dirti di no.
Gli sforzi che faccio sono superiori a quelli di ogni altra volta. Se lo sto facendo, è solo perché non voglio che tu mi molli! Giuro, Silvia, io ce la sto mettendo tutta! Guarda le braccia, come mi tremano! Guardami, avrò il viso rosso e le vene del collo rigonfie per lo sforzo! Ma le mia gambe, quelle neanche oggi vogliono saperne, di compiere movimenti. Sono ferme e rigide come tronchi d’albero.
Dopo un paio di minuti a cercare di mantenermi in piedi tra le tue braccia deboli, ricado stremato sulla mia sedia a rotelle. Scusami, Silvia.
Scusami, la prossima volta farò meglio, promesso. Ma tu promettimi che non mi lascerai.

S. Giorgino

Rachele piange

Rachele piange perché non potrà mai provare la selezione per un famoso programma televisivo, quello che mandano in onda alle tre del pomeriggio e che tende ad affascinare le ragazzine della sua età, che si sentono tutte ballerine, cantanti, attrici, soubrette, future donne dello spettacolo. Rachele piange perché si sente rifiutata da tutti, dal mondo che la circonda, e non trova conforto nelle parole di una madre che, troppo impegnata tra le sue carte di lavoro, si limita a dirle: “Ma tesoro, tu sei bellissima” e intanto, la sera, non ha tempo per cucinare e Rachele ingurgita pizze margherita e fast food al Mc Donald’s sotto casa. Rachele indossa un paio di jeans taglia 46, ma le va stretto. Dovrebbe comprare un nuovo paio di jeans, ultimamente ha preso qualche altro chilo. Rachele si guarda allo specchio e cerca di scoprire il suo corpo che sta crescendo sempre di più, e non solo in dimensione. Ha avuto le prime mestruazioni due anni fa. Rachele è già grande e sta diventando una donna, quindi si guarda allo specchio i suoi due grandi seni, che tendono a non entrare più nel reggipetto, tanto sono cresciuti. Se li tocca come stesse lisciando due mele e non si sa cosa passi nella sua mente in quel momento. Rachele vorrebbe tanto assomigliare ad una di quelle attrici americane o di quelle modelle che sfilano nelle televisioni e ballano sui cubi o anche solo appaiono nelle pubblicità dei profumi. Le vorrebbe anche lei, quelle gambe lunghe… e indossare quei tacchi alti? Quando mai. Lei deve indossare scarpe da ginnastica, è ancora piccola e pensa che anche se fosse grande non potrebbe indossarli, i tacchi, non riuscirebbe a portarli con il suo peso. Rachele piange perché oggi, durante la ricreazione, a scuola, Matteo non l’ha neanche degnata di uno sguardo, mentre lei lo ha seguito per tutto il tempo, nei corridoi, come fosse la sua ombra, ma quello neanche della sua ombra potrebbe accorgersi quando di fronte a lui c’è Rosalinda, coi suoi capelli biondi e morbidissimi, soffici, e i suoi occhi azzurri, che è tanto bella, e il suo corpo esile come fosse una bambolina,  e il suo bel nome che Matteo pronuncia sempre quando è solo con i suoi amici, e Rachele può sentirlo benissimo, perché è come se fosse invisibile e può anche passare accanto a lui mille volte che non se ne accorgerebbe. Così, spesso, le capita di ascoltare quello che dice ai suoi amici, di Rosalinda. Dice tante cose belle, altre meno belle, ma che fanno comunque parte di un ragazzo innamorato… si dice Rachele. In palestra poi, nell’ora di educazione fisica, vorrebbe mettersi a sedere sulla panchina e restare a guardare tutti gli altri che corrono intorno alla palestra, per evitare l’imbarazzo di accorgersi che Matteo è dietro di lei con il suo compagno di banco a ridere di tutta quella ciccia che balla. Quando è a casa, Rachele si chiude in camera e ci sta ore ed ore, ed è difficile indovinare cosa faccia. Se ne sta china sul suo diario segreto a macchiare di inchiostro pagine su pagine di quadernoni dalle copertine colorate, con tutti quegli errori ortografici che non farebbe, se avesse testa per studiare di più. Per fortuna, in televisione stasera danno un bel film e Rachele è contenta di guardarlo con suo fratello, che è a casa con la febbre. E’ un film che parla d’amore. L’attrice è così bella, ma così bella che Rachele sogna di diventare come lei, di conquistare tutti gli uomini della terra e tutto il mondo con quel corpo e con quegli occhi e con quell’altezza. Rachele vede al di là dello schermo un mondo che è quello giusto, se può stare lì sullo schermo, e se lo dice sempre ormai, che il brutto non va da nessuna parte, anzi non se lo dice, ma lo sente, lo percepisce e lo scrive sulle pagine del suo diario segreto. Rachele piange perché oggi ha preso un voto basso in italiano, è andata fuori argomento nel tema in classe perché non ha studiato bene la lezione. La madre adesso la rimprovera, urlandole che i soldi per comprare i libri di testo non le vengono certo regalati e che la scuola è importante e che non vuole fare la figura di andare all’incontro scuola-famiglia e sentirsi dire dagli insegnanti tutta una serie di cose negative su quella figlia indisciplinata. Rachele piange perché non sa più cosa è giusto e si sente tanto triste dentro. Ma stasera, per fortuna, c’è la finale di Amici, così Rachele potrà finalmente vedere che ha vinto Stefania, la ballerina più bella della televisione, con i suoi occhi dolci e blu, con il suo fisico mozzafiato, che vorrebbe tanto averlo pure lei…

S. Giorgino

Non vorrà dire morire



Che ondeggi pure – la vela –
nei respiri del vento,
chi la guida saprà per certo
individuarne la rotta –
saprà scoprirne i meccanismi –
sino a giungere – anche a fatica –
nel porto sicuro – di cui conosce bene
le fattezze.

Che ondeggi pure – anche più volte,
e non vorrà dire morire –

dal naufragio, anzi – dipanata –
potrebbe uscire trionfante.

S. Giorgino - 08/12/2010

Uno qualunque

Un motorino vecchio, mezzo scassato, una marmitta rumorosa, un ragazzo con la barba ed una sigaretta alla bocca. Ha appena parcheggiato e lo vedi guardarsi intorno. I capelli spettinati lasciano intravedere uno spazio bianco di cuoio capelluto. Sembra che si sia appena alzato da un letto e non abbia neanche avuto il gusto di pettinarsi. Indossa un maglione deforme, grigio, su un paio di jeans strappati, e sul volto una cicatrice, piccola ma visibile, e un sorriso a malapena abbozzato. Ha tutta l’aria di essere sereno, o forse è solo indifferente. Indifferente agli stimoli vitali, indifferente alla gente che gli è intorno, indifferente al suo motorino parcheggiato male. Lo vedi guardarsi intorno, la piazza è piena di gente, tutti ben vestiti, cani ben pettinati al guinzaglio guidati da padroni attenti e affettuosi, ragazzine nelle loro gonne tutte uguali, mariti che nascondono le loro fedi alla ricerca di avventure da sabato sera, bambini eccitati sull’elefantino elettrico. Lui indifferente ad ogni stimolo. Non c’è niente che colpisca la sua attenzione, niente che lo riporti alla realtà. Sembra estasiato, fuori del comune i suoi atteggiamenti apparentemente calmi, strano perfino il suo modo di camminare. Ha l’aria di uno a cui non importa niente di niente, ha l’aria di chi non può permettersi di pensare come gli altri, di fare quello che fanno gli altri, ha l’aria di uno che vive in un mondo a parte, in una dimensione parallela. Ha l’aria di chi ha perduto qualcosa. Forse il contatto con la realtà. Gli altri sono solo gli altri. Niente di più, niente di meno. Lui, non sa neanche chi è lui. Uno di quegli altri, senza dubbio, ma diverso, uno che sa quello che vuole e non gli importa se sia qualcosa che agli altri possa non andare bene. Infondo ognuno è solo con se stesso. Nessuno ti dà niente. Se lo dice sempre, nessuno ti dà niente, a meno ché non paghi. Si perde in mezzo alla folla, sembra che stia puntando qualcuno, invece punta una pattumiera dove butta il mozzicone della sua sigaretta, un gesto inconscio, sicuramente se qualcuno gli chiedesse cosa ha fatto un secondo addietro non ricorderebbe neanche d’aver buttato il mozzicone di sigaretta in una pattumiera. E’ perso tra i suoi pensieri e non si muove dalla piazza. Dopo qualche minuto sembra ovvio che stia aspettando qualcuno. Inizia ad agitarsi, guarda l’orologio, si infila le mani nelle tasche dei jeans, sfregandosele sulla stoffa interna e facendo una smorfia di disappunto come se ci fosse qualcuno lì con lui. Lo vedi all’improvviso scomparire dietro una stradina, allontanandosi dalla piazza e dalla gente, lasciando il suo motorino parcheggiato male, raggiunge un tipo appena arrivato che gli passa qualcosa tra le mani, con un gesto di superiorità, di calma assoluta, di autocontrollo. Qualcuno gli ha dato qualcosa e lui ha pagato. Torna al motorino, senza guardarsi intorno. Non vede nessuno e nessuno lo vede. E’ un altro in mezzo a tanti altri. Il rumore del motorino che riparte forse sì, avrà attirato l’attenzione di qualcuno, ma una volta scomparso dietro la curva che porta lontano dalla piazza, diventa solo uno dei tanti rumori di questo sabato sera: motorini che si allontanano, voci di donne e uomini, urla di bambini, abbai di cani ben pettinati.

S. Giorgino

lunedì 20 dicembre 2010

Tailleur e mocassini

Tutti questi rumori nel palazzo mi hanno svegliata presto stamattina. Volevo essere più in forma che mai per il mio colloquio di lavoro e invece mi sento uno zombie. Non ho dormito bene. Ieri sera mi sono addormentata tardi, tra un pensiero e un altro non avrò chiuso occhio prima dell’una. Ormai sono in piedi e ne approfitto per fare colazione con cereali e una spremuta d’arancia. Ma si, ora ricordo. La proprietaria di casa mi ha avvertita qualche giorno fa che oggi sarebbero iniziati dei lavori nel palazzo. I tecnici della caldaia sono stati puntualissimi: su per giù alle 7 erano già qui. Intanto, tra un boccone di cereali ed un sorso di spremuta, ripasso tra me e me nozioni che potrebbero servirmi per il colloquio, per questo incontro a tu per tu con il capo della MG&co, uomo distinto, di grande fascino, il fascino dell’uomo potente nei suoi appena compiuti 35 anni. Me lo immagino già, giacca e cravatta, camicia bianca, sorriso splendente, ancor più splendente di quando lo incrociai per la prima volta nei parcheggi della MG. Mi ricordo a fissarlo inebetita mentre quello, con le sue cartelle sotto le braccia e il suo passo veloce diretto nel suo bell’ufficio, non si sarebbe mai potuto accorgere di me. Si chiama Mark. Mark Salmon. Mi hanno raccontato tante cose su di lui e non nego che alcune di queste… mi piacerebbe provarle da me per crederci!
E’ da due giorni che nuoto nella fantasia alla ricerca di qualcosa di carino da indossare e per l’occasione ho acquistato un tailleur niente male. Ho anche avuto il dubbio di essere troppo elegante, optando per un jeans alternativo, un abbigliamento più stravagante, ma non voglio assolutamente rischiare una brutta figura, anche perché non sono magra, i jeans metterebbero in risalto la mia ciccia e il mio gran posteriore. Vada per il tailleur, che non è poi tanto aderente.
Mark è come un idolo per me, da sempre, da quando lavoro come magazziniera per la MG&co. Mia sfortuna è solo che la sede del magazzino non è nello stesso comune della centrale e quindi mi capita solo di rado di incontrare Mark di persona. Direi mai. Quando la mia amica Tania mi ha rivelato che il capo cerca una nuova segretaria, non ho esitato a presentare la mia candidatura, come per “passare di livello”. Ah! Che gioia pensare di poter stare al suo fianco tutti i giorni, passargli le telefonate, prendere per lui gli appuntamenti, portargli un buon caffè mentre è immerso nel suo lavoro. Glielo porterei proprio mentre è incasinato con il lavoro, così che potrebbe apprezzare ancora di più il mio caffè, gli strizzerei l’occhio e lui cascherebbe tra le mie braccia… Devo mettercela tutta e al colloquio devo essere impeccabile. Tania mi dice di non esagerare nei pensieri, dopo averle confidato la mia eterna cotta per Mark. Mi dice di non puntare su uno che ha la puzza sotto al naso, che crede di essere chissà chi solo perché si è fatto strada con maestria nel campo dell’imprenditoria e perché lo vedi sfrecciare in una Porsche ultimo modello, e dice anche che con le donne ci va giù pesante, ogni sera o quasi con una diversa, tutte magre, snelle, tacco a spillo di 10 centimetri e rossetto rosso su labbra carnose. Così mi dice Tania, ma perché non posso seguire il mio istinto? A me non importa che Mark abbia questo vissuto. Un uomo innamorato potrebbe cambiare, no? E se davvero dovesse funzionare, se davvero fossi io la sua futura segretaria? E se tra di noi nascesse un’amicizia particolare? Sto sognando ad occhi aperti. Non mi va comunque di fare di un uomo quello che gli altri mi dicono di lui. Non mi va di farlo, se non lo conosco. Non posso credere che un uomo sia ciò che sento in giro, debbo provarlo da me. Per quel poco che so e per il mio istinto, credo invece che Mark non sia così come lo dipingono, che nel suo petto si nasconda un cuore tenero, e non lo dico solo perché sono innamorata di lui. Ma ora basta con tutti questi pensieri, sono ancora qui in pigiama a bere spremuta d’arancia, è meglio che inizi a prepararmi. Ma suonano alla porta e sono costretta ad aprire in queste condizioni. Apro e vedo un tizio tutto sporco di intonaco, capelli neri e spettinati, barba incolta. Non parla subito ma sfido io che sia uno dei tecnici delle caldaie che viene a rompere per controllare anche la caldaia del mio appartamento. E’ sporco. Mi fa anche ribrezzo farlo entrare, ho la sensazione che mi sporcherà tutto il pavimento. Ma ora sto esagerando. L’importante è che si muova perché non ho molto tempo per stargli dietro dovendomi preparare per il colloquio. Mi spiega con un accento poco elegante che deve dare una controllatina alla mia caldaia. “Controllatina”, ha usato proprio questa parola, eppure sono già 15 minuti che è di là. Sono costretta ad andare ad avvertirlo.
“Senta, scusi, quanto ci mette ancora?”, chiedo con un tono non troppo simpatico. Lui mi risponde con una serie di paroloni tecnici come se potessi capirci qualcosa, poi mi guarda e sorride. Correggendosi dice:
“Dobbiamo sostituire tutte le caldaie e le spostiamo sul terrazzo per non disturbare nessun inquilino del palazzo”. Ah, bella scoperta, e lo dovete fare proprio stamattina?
“Ma non si preoccupi”, aggiunge sorridendo “Oggi è solo una controllatina. Verremo domani per ultimare i lavori”. Ah menomale! Mi sento sollevata e dato che mancano ancora due ore al colloquio decido anche di essere gentile ed offrire una spremuta d’arancia al mio tecnico della caldaia. Lui accetta e in pochi minuti siamo in cucina a scambiarci due parole e a darci del tu. Mi accorgo che mi guarda piuttosto inebetito, quasi come io guardavo Mark le prime volte che avevo il piacere di incrociarlo per caso. Mi parla di sé, mi dice che si chiama Alberto e che ha 35 anni. Anche lui. Quando me lo dice penso a Mark. Tutto mi fa pensare a Mark. E’ simpatico ma mi rendo conto che il tipo ci sta provando. Sono in pigiama, penso in un batter d’occhio. Senza trucco, in pessime condizioni. Eppure mi pare proprio che il tipo sia interessato e me ne dà conferma quando mi chiede: “Ti sembrerò un po’ affrettato, ma io volevo invitarti a vedere un film al cinema se ti va”. Lo dice timidamente. Resto qualche secondo in silenzio come stessi valutando l’offerta, lui se ne accorge e fa una smorfia come per dire “come non detto, non avrei dovuto”. Io gli rispondo che non ne ho grande voglia, e mi accorgo che mentre lo dico mi sto rendendo un poco superiore: mi sento desiderata, ho la situazione in pugno e il tipo pende proprio dalle mia labbra. Mi ripete di non preoccuparmi, che mi capisce bene. Non so cosa mi succede, ma gli racconto anche del mio colloquio e del mio interesse eterno per quest’uomo d’affari, e glielo dico come volessi sminuirlo. Alberto è solo un tecnico delle caldaie. Mark è un imprenditore in Porsche. Dopo essermi confidata con lui non tralasciando alcun particolare, noto un tenero sorriso da parte sua, un sorriso che non biasima. Mi pento di ciò che ho detto ma ormai è fatta.
Rimasta sola, mi sbrigo a prepararmi, metto la mia ciccia nel tailleur che ho acquistato per l’occasione e scivolo in macchina verso la MG&co. Arrivo in sala d’attesa. Trovo un sacco di gente, tutte donne. Ma cosa mi aspettavo? Non avevo pensato all’eventualità che fossimo così tante. Mi sento una briciola in un mare di briciole di pane. Un granello in una distesa di sabbia. Ma soprattutto la mia ciccia e il mio tailleur non si abbinano alla cornice che mi circonda: ragazze tra i 20 e i 25 anni (tutte con almeno 10 anni meno di me), in gonna e tacchi a spillo di 10 centimetri. Alcune hanno anche un rossetto rosso su labbra carnose per l’occasione. Ad un certo punto mi viene il dubbio di essere finita ad un provino per aspiranti modelle invece che ad un colloquio di lavoro. Mi sento un pesce fuor d’acqua. Cerco di rimediare correndo nella toilette. Frugo nella mia borsa e ci trovo un rossetto rosso: ah che fortuna non averlo lasciato a casa! Mi giro intorno e mi accorgo che non ci sono neanche specchi in questa ricca toilette della MG&co. Va bene, non fa niente. Metto il rossetto in tutta velocità ed esco per ricongiungermi con le mie rivali. Mark ha appeso una lista fuori dall’ufficio sulla porta, ci sono tutti i nomi di noi candidate segretarie nell’ordine in cui verremo chiamate. Accalcandomi acidamente tra le rivali e schivando gomitate sulle tette riesco a leggere che sono la numero 17. Niente male. Per fortuna la superstizione non è delle mie. Attendo il mio turno a metà tra con il cuore in gola per l’emozione di dover incontrare Mark di persona e un’invidia rabbiosa per queste giovincelle che vorrebbero rubarmi il posto di lavoro. Ciò che mi distingue da loro, ed è quello che capto dalle loro chiacchiere d’attesa, è che io possiedo una laurea, sebbene mai sfruttata, mentre la maggior parte di loro non ha titoli significativi. Uno a zero per me! E va bene, uno a uno, considerando la loro taglia numero 42. C’è questa Sarah accanto a me che non la smette di parlare, e poi Vanessa, le sento chiamarsi per nome, devono essere amiche, si raccontano di tutto in questa attesa, le loro gambe lunghe messe in risalto da gonne modello mini distolgono per lo meno dai loro discorsi inutili. Mentre provo a sminuire tutte loro nella mia mente, Mark esce dall’ufficio per chiamare la prima candidata. Com’è bello! E’ elegantissimo e impeccabile. E che timbro di voce! I colloqui non durano tantissimo. Dopo una decina di minuti la prima candidata è già fuori tutta sorridente e se la tira fino alla porta di uscita sui suoi super tacchi. L’attesa non è noiosa, e quando arriva il mio turno sono ancora tutta pepe come quando sono arrivata. Chiama il mio nome e il cuore mi batte forte. Non è solo un colloquio di lavoro, è un colloquio di lavoro face to face con l’uomo di cui sono segretamente innamorata da anni! Appena entrata, mi accorgo che l’ufficio è circondato da specchi.  In un secondo mi vedo riflessa dappertutto. Ci sono un sacco di me, su ogni lato della stanza. Mi accomodo sulla sedia che mi indica Mark e in un momento in cui mi sono fissata sulla mia immagine in uno degli specchi mi accorgo di una sbavatura di rossetto, penso in un baleno che potrebbe anche mettere uno di questi specchi nella toilette dell’edificio! E mentre Mark è chino sul mio curriculum vitae per consultare i miei dati ne approfitto per una rapida ma efficace passatina di dita sulla sbavatura. Faccio appena in tempo a concludere l’operazione, che Mark alza lo sguardo e mi guarda con i suoi dolcissimi occhi verdi. Sto per svenire. Se mi guarda così non riuscirò a comporre frasi di senso compiuto. Mi sento goffa e insicura, ma non lo do a vedere. A meno ché l’emozione non mi stia giocando brutti scherzi, credo che non siano passati neanche due minuti da quando sono entrata in questo ufficio e le parole che ora sta pronunciando fanno credere che sarò fuori tra meno di un altro minuto.
“Voglio essere sincero con te come lo sono stato con altre che sono passate da qui prima di te. Cerco una persona… con altre… caratteristiche”, e per me è come se avesse detto “Cerco una giovane ventenne con un gran bel cu… rriculum vitae. Tu sei fuori!”. Lo guardo inebetita, stavolta per la delusione. Non mi ha fatto neanche aprire bocca. Non riesco a dire niente se non un insensato “Grazie”. Ma grazie di che? Prima di mandarmi del tutto via, è anche così gentile da dirmi, indicando la dicitura “Esperienze professionali” sul mio CV: “Comunque il posto di magazziniera per la mia ditta, quello non te lo toglie nessuno”, ah menomale, che buon uomo! Mi perdo un’ultima volta nei suoi occhi irresistibili ed esco dalla porta del suo ufficio. Sarò di sicuro di un colore tra il rosso e il bordeaux. Me la tiro fino alla porta di uscita sui miei mocassini neri. Come posso indossare un paio di mocassini sotto un tailleur?, penso. Sono l’imbranataggine fatta persona. Come poteva Mark assumere una come me? Una grossa magazziniera in mocassini e tailleur.
Torno a casa e mi immergo in un enorme piatto di pasta alla carbonara. I pensieri non mi abbandonano per tutto il pomeriggio. Verso sera ricevo una telefonata di Tania, la quale ha per certo i risvolti della situazione, lavorando a stretto contatto con Mark. Oltre al suo inevitabile “te lo avevo detto io” che giunge puntuale dopo avergli raccontato il modo in cui sono stata trattata, mi svela anche che Mark ha assunto come sua fedele segretaria una certa Sarah. Già, Sarah, paio di gambe lunghe sotto quasi inesistente minigonna: chi lo avrebbe immaginato? Forse tutti tranne me. Le sue gambe avranno distolto dai suoi discorsi inutili l’attenzione di Mark, sempre che le abbia permesso di aprire bocca… per parlare, s’intende! Ora basta, meglio non pensarci.
Vado a letto e mi addormento affondando la mia testona nel cuscino. Mi sveglio che già il sole entra nella stanza dalle fessure della finestra. Mi pare di aver dormito per tre giorni e tre notti di seguito. Non faccio neanche in tempo ad aprire gli occhi che suonano alla mia porta. In un baleno mi vengono alla mente la caldaia, i tecnici e il mio pigiama. Non faccio in tempo a cambiarmi. Corro ad aprire. Alberto appare da dietro la porta sorridendo. Gli chiedo scusa per il mio stato e gli dico che avevo dimenticato di mettere la sveglia. Lo faccio entrare e lui comincia i lavori. Ad un tratto lo sento dire qualcosa, gli chiedo di ripetere perché non ho capito e mi dice: “Ti chiedevo come è andato il tuo colloquio di lavoro”. Senza che se ne accorga gli getto uno sguardo diabolico. Avrei preferito dimenticare tutto in fretta e non prendere il discorso con nessuno. Gli dico: “Diciamo che… rimango magazziniera”. Lo dico con un tono di voce tale che lui sembra capire che non è andata affatto bene e soprattutto che Mark non è esattamente quella persona che mi aspettavo e di cui tanto gli avevo parlato. Infatti ora lo so, Mark è esattamente la persona che mi raccontavano gli altri. Mi sono illusa che potesse essere diverso e l’ho fatto solo perché ne ero innamorata. Forse in cuor mio ho sempre saputo che tipo di persona lui sia. Mentre svolgo questi pensieri di delusione nella mia mente, Alberto ha finito di operare alla caldaia, mi dice che manca un pezzo e che tornerà più tardi. Mi stupisce che indossi sempre questo sorriso dolce e gratuito e ammiro la sua pacatezza e la sua tranquillità. Quasi quasi mi dispiace di avergli detto quelle cose ieri mattina. Non mi chiederà più di uscire, ne sono sicura. È quello che mi merito! Lo accompagno alla porta e lo guardo scendere piano la scalinata che conduce all’ingresso del palazzo, ma prima che io possa richiudere la porta alle mie spalle, mi dice: “Ehi, comunque la mia proposta è sempre valida” e scompare con un sorriso.

S. Giorgino

Sobborghi

Nei sobborghi avremo vissuto –
di una città addirittura disabitata –
se avremo pianto invano,
se non avremo compreso il senso
delle disavventure,
se avremo cercato di dimenticare.
Periferie trascurate non perdonano
la durezza dei ricordi – e questi,
come fiori campestri vorremmo coglierli,
e appassirebbero
dentro ai vasi – Io, invece, li lascerò lì
a crescere, e voi insieme a me –
i campi, e tutti i fiori,
innaffiati, al massimo, da qualcuna
delle nostre lacrime.

S. Giorgino - 23/08/2010


Puoi dirmi?

Puoi dirmi l'amore?
Stasera sono senza parole,
 e se parlo, parlo solo con il silenzio
e con il cielo.
Puoi dirmi di te e dei tuoi
pensieri, puoi svelarmi i segreti
del vento che soffia
e delle stelle che si accendono
di notte? Puoi dirmi ancora che mi ami
e spiegarmi quanto e come
per te sia per sempre?
Sono senza parole stasera,
ma se parli tu, io scaccio via il silenzio
e ti ascolto volentieri.

S. Giorgino - 16/08/2010

domenica 19 dicembre 2010

Tra la pineta e il mare

Corsero, corsero per tutta la pineta finché si sentirono stanchi. Sembravano le corse e i giochi di due ragazzini mai cresciuti. L’odore dei pini freschi si espandeva nell’aria estiva, il rumore del mare giungeva dolce ai loro orecchi, ora che si erano fermati ad ascoltare. “Senti, il mare”, le aveva detto lui. Lei non aveva risposto, continuando ad ascoltare con gli orecchi tesi, come quando si cerca di percepire un rumore lontano di cui non si può indovinare la fonte. Ma il mare era lì, da qualche parte, non sapevano dove precisamente, ma sapevano che era lì e che sarebbe stato la loro prossima meta.
Lei si era posizionata sul tronco di un pino così curvo da potercisi sedere. Cercava di addomesticare i capelli lunghi, ma erano continuamente mossi dal vento, così come la sua veste di lino, bianca, che ondeggiava sulle gambe lisce e ambrate. Sorrise e con il suo sorriso le si illuminarono gli occhi, mentre cercava di dirigere il suo sguardo verso di lui, attraverso un fascio di luce intenso che penetrava dai rami degli alberi. “Così sei perfetta”, disse lui, ricambiandole lo sguardo. Si, era bella. Aveva gli occhi sorridenti, la bocca rossa sembrava una rosa appena sbocciata. La bretellina della sua veste si era abbassata sulla spalla, scivolando giù, fino a raggiungere il seno morbido e vellutato. “Lasciala così, sei perfetta”, disse di nuovo lui, per impedirle di tirarla su. Il sole giocava con lei, quando il vento muoveva i rami folti e disegnava figure di ombre e di luce sulla sua pelle di seta. Luccicava al sole un braccialetto che aveva legato intorno alla caviglia delicata. “Perfetta, ferma così”. Lui aveva già sistemato la sua macchina fotografica. Si era fermato solo un momento ancora ad ammirarla dal vivo, poi l’aveva catturata per sempre in uno scatto. Negli occhi di lei quello strano imbarazzo di essere bella, negli occhi di lui il desiderio di averla.
Si muovevano adesso alla volta del mare, cercandolo al di là dei pini e dei cespugli, ascoltando il rumore delle onde infrangersi sul bagnasciuga per indovinare da quale parte si trovasse. Correvano di nuovo a perdifiato, fendendo il vento che si scontrava con i loro volti sudati, mentre solo i pini stavano ad osservare quelle corse sfrenate, piene di passione, a cercarsi l’un l’altro, a rincorrersi come fossero ragazzini, e tra gli alberi si spandevano come echi le loro allegre risate, e le grida. Corsero, corsero finché lo videro, il mare. Una sconfinata distesa azzurra che luccicava al sole e diventava tutt’una con il cielo, all’orizzonte. Stremati si lasciarono andare, sdraiandosi sulla sabbia, e granelli nei vestiti, nei sandali, tra i capelli. Respiravano l’immensità di cui erano partecipi, mentre il corpo di lui sfiorava il corpo di lei. Lui prese la macchina fotografica e la catturò di nuovo, in mille altre pose. Mille altri scatti per godere sempre, in ogni istante lo desiderasse, di lei e di quella sua bellezza che si confondeva con tutte le altre bellezze intorno a loro. Era così bella che si confondeva con il sole, con la sabbia dorata, con il mare, con il cielo, si confondeva con l’immenso.

S. Giorgino

L'incontro

Sono finalmente sola con me stessa. Ora sono completamente sola. Non c’è Anna con la sua musica ad alto volume, non c’è Clara con la sua chitarra elettrica. Non squilla il cellulare da almeno due ore. Potrei anche spegnerlo, il cellulare, per evitare che squilli mentre sono assorta nella meditazione, ma potrebbe chiamare Francesco, non si sa mai. Comunque sono sola con me stessa. Ragiona adesso. Chi sono? Cosa ci faccio qui? Sono un corpo o un’anima? Voglio dire, qualcosa deve pur venire fuori. Oggi ho il cervello come una tavola rasa. Devo scrivere una pagina per un giornalino e non mi passa un’idea per la mente. Sono colta da un improvviso istinto di euforia: ci sarà scritto il mio nome infondo alla pagina del giornale! Mio Dio! Che grande emozione. Modestamente devo scrivere una pagina tutta mia per un giornalino! Vanessa Della Bona scriverà per un giornalino! Certo, avrei voluto scrivere per il Corriere della Sera, o che so io, magari per Glamour, o per una rivista importante (è la mia grande aspirazione), ma il fatto che il preside della scuola elementare del paese mi abbia dato questa grande opportunità di scrivere una presentazione per il giornalino annuale mi fa sentire più o meno fiera. C’è solo un problema. Il preside in questione, mio vicino di casa, è un uomo anziano e ci ha provato con me in più di un’occasione. Io ho accettato di scrivere per lui solo perché è sempre stato un mio sogno vedere qualcosa di mio scritto su un giornalino che leggeranno un sacco di persone (lo leggeranno tutti i bambini della scuola, e le loro mamme, e magari le mamme delle mamme, e le loro amiche!), ma in verità so che avrei dovuto rifiutare. Ancora adesso sono indecisa. Il preside è una persona meschina e farebbe di tutto per arrivare al suo scopo! Che abbia voluto solo comperare la mia gratitudine? Non gli concederò neanche un caffè! Intanto però ho accettato l’incarico e quindi… Ragiona adesso. Dove stiamo andando? Cosa ci facciamo in questo mondo? Esistono gli UFO?
Butto giù due righe sul computer.
Siamo umani alla ricerca di una
Ehm. Va bene. Cancellerò l’ultima parte.
Siamo umani
No, forse meglio
Siamo uomini
Va bene. Non fa niente. In fin dei conti l’articolo parla della recita di fine anno! Alzo lo sguardo dal monitor, fisso un attimo il vuoto. E’ che la grande arte è sempre frutto di profonde meditazioni! Ma forse per il giornalino di una scuola elementare è meglio iniziare narrando una favoletta.
C’era una volta…
O forse potrei tentare un approccio più creativo…
C’era una volta una ragazza di nome Vanessa Della Bona che doveva scrivere un articolo per il giornalino della scuola elementare del comune di San Fiorano…
Al diavolo!
Accidenti! Non ho neanche iniziato e sono già stanca. Continuerò domani, ora mi voglio concentrare sul mio incontro con Francesco. Eh si, stasera incontro Francesco! Sono così emozionata! La verità è che ho paura di questo incontro. Dovete sapere che è un incontro al buio. Abbiamo un amico in comune, il carissimo Paolo. Paolo crede per chissà quale ragione che io e Francesco siamo fatti l’uno per l’altra e che ci dobbiamo conoscere, così ha fatto in modo che ci scambiassimo il numero di cellulare. Dice che abbiamo tante cose in comune. Per esempio, sia io che Francesco mettiamo l’asciugamano intorno ai bordi della tazza quando… va beh, dettagli. Inoltre, sia io che Francesco lasciamo il pezzo più buono del pasticciotto alla fine per godere dell’ultimo, dolcissimo boccone e… guai a chi lo tocca! E ancora, Francesco ama le grandi marche, soprattutto per l’abbigliamento, e io sono contentissima di questo! Insomma, non è esattamente una cosa in comune, poiché io vesto per la maggior parte con capi in vendita ai mercatini, ma lui non lo sa mica! Quindi al telefono gli ho detto che anch’io amo le grandi marche (non gli ho detto esplicitamente che anch’io le indosso, ma senza volerlo credo di averglielo lasciato intendere). Insomma, io e Francesco abbiamo diverse cose in comune. Ci siamo solo sentiti via telefono per tutto questo tempo, ma è bastato per instaurare un buon feeling. Abbiamo fatto delle lunghe chiacchierate al cellulare! Mi chiama per stare ore e ore a parlare con me.
Quando mi stacco dal computer, mi sento sollevata. Mi alzo, e finalmente posso aprire l’armadio per decidere che cosa indosserò stasera. E’ il momento che preferisco! Un paio di jeans (metterei la gonna, ma per la prima serata con Francesco opterei per qualcosa di più comodo), una magliettina che lascia scoperta la spalla destra ed un paio di scarpe beige coi tacchi alti. Metterò un paio di orecchini, quelli enormi che uso io, e legherò i capelli in un codino. Ho i capelli corti e biondini. Li avevo lunghissimi fino solo a qualche mese fa (anche se non erano miei)! Poi il parrucchiere mi ha sbagliato il lavoro sulle ciocche e mi sono dovuta far fare un taglio alternativo. È sbarazzino! Tutto sommato mi piace. Con il trucco non ci andrò giù pesante. Vorrei essere più naturale che mai. Cercherò solo di accentuare lo sguardo, usando ombretto, matita e mascara. Magari metterò anche un po’ di rossetto rosso. E del fondotinta. In fin dei conti, credo che userò anche la cipria per le gote. Non vorrei mettere altri gioielli oltre ai miei orecchini enormi. Al massimo, indosserò soltanto una collana oltre quelli. Anzi, credo che abbinerò anche, vediamo un po’, si, questo bracciale qui! E’ perfetto. Ha l’ametista che si abbina al colore della magliettina che metterò! È necessario che l’indossi! E, a pensarci bene, questo bracciale l’ho comperato insieme ad un anello che aveva la stessissima pietra. Lo cercherò!
Ok. Ora mi sento proprio felice. Non è cosa da niente, per una come me, avere già in mente quello che indosserò! Mi basterà aprire l’armadio e le mie mani andranno senza indugi sui capi che ho già selezionato per questa serata! Sapete che cosa vuol dire? Almeno un’ora in meno di preparazione! È già qualcosa. Fidatevi. Accidenti! Mentre richiudo l’armadio ho un improvviso flash: la borsa! Non ho una borsa da abbinare alle mie scarpe beige! Ok, niente panico. Niente panico! Ciò potrebbe voler dire deselezionare ogni capo che ho appena scelto perché mi manca la borsa da abbinare alle scarpe! Non si può, non si può. Ok. Andrò a dare una sbirciatina tra le borse di Clara e Anna. Anzi, solo tra quelle di Anna. Clara e le sue borchie non mi si addicono. Entro nella stanza e comincio a cercare il reparto borse. Ma Anna non ha borse che possano abbinarsi a quelle scarpe! Ok. Niente panico! Mi guardo intorno con la faccia di una che spera che una borsa beige si materializzi dal nulla ed esco dalla stanza di Anna chiudendomi la porta alle spalle. Non ho altro rimedio. M’impongo due opzioni:
1)      Rivoluzionare l’insieme dei capi da indossare in occasione della mia prima serata con Francesco;
2)      Uscire adesso, proprio adesso, prima che sia troppo tardi, per comperare una borsa che si abbini alle mie scarpe beige.
Affare fatto! Mi do una veloce spazzolata ai cappelli, ripasso la matita agli occhi, prendo la borsa ed esco! No! Un attimo, torno indietro quando sono sulla soglia di casa. Meglio mettere i tacchi, potrei incontrare qualcuno! E visto che ci sono, un paio di orecchini ed un bracciale non mi porteranno mica via tutto questo tempo. Metto il bracciale con i ciondoli che tintinnano facendo rumore. Potrei dover gesticolare intrattenendo un pubblico in occasione dell’inaugurazione di un nuovo bar. Voglio dire, potrebbe succedere di tutto una volta varcata la soglia di casa! Meglio uscire organizzate! Ok, sono a posto. Vado! Per fortuna so già dove dirigermi. Da Carpisa! Lì trovo sempre la borsa che fa per me! Cammino per strada con passo veloce con l’aria di una che ha ben in mente la meta dove è diretta. Non guardo in faccia nessuno. In verità è tardi, e temo di incontrare qualcuno che mi faccia perdere del tempo. Devo solamente comprare una borsa, e in fretta! Ecco Carpisa! Non appena vedo l’insegna luminosa del negozio, accelero il passo per fare più in fretta, quando all’improvviso una voce che chiama il mio nome mi arriva all’orecchio stridula come la sirena di una fabbrica. Al ché salto anche un po’ per lo spavento! “Ehi! Luciana!” grido, un po’ troppo euforica. In verità vorrei tirarle un pugno. È la mia istruttrice di palestra, quella che ha spifferato in giro (per scherzo, dice lei) che ho la cellulite sulle cosce. Vorrei picchiarla, ma sarebbe un’operazione che mi ruberebbe più tempo di quanto possa mai rubarmene un rapido saluto. “Come mai da queste parti?”, le grido sempre euforica mentre il mio sguardo si dirige verso la vetrina di Carpisa. “Oggi la palestra è chiusa”, sta dicendo. “Te ne sei dimenticata? E’ sabato”. “Oh, già!”, la assecondo, “E’ sabato! Infatti stavo giustappunto…”. Mi interrompe prima che io possa continuare dicendole che ero diretta verso una meta precisa prima che lei mi bloccasse qui sul marciapiedi. “Si sta spargendo la voce che Ilaria se la faccia con Massimo… sai, la Narciso, la tuta gialla…”, “Mmmmm, si”, tento di ricordare. In verità non mi viene alla mente nessuna Narciso e nessuna tuta gialla. “Ilaria!”, dice di nuovo con voce più alta e venendo in avanti con il busto, come se ripetendomi il nome alzando il tono della voce e venendo in avanti con il busto io potessi ricordare prima. “Si!”, urlo, con voce stridula. Fingo di ricordare. Lo sanno tutti che in queste circostanze bisogna assecondare subito il proprio interlocutore e, soprattutto, mai interromperlo quando parla, in modo che il discorso finisca più in fretta possibile. Mi sta raccontando tutta la storia e, a dire il vero, ora sta iniziando a interessare anche me! Ho capito a chi si riferisce, ho capito chi è questa Ilaria. È quella ragazza con le tette rifatte. Ma Massimo non è sposato? La storia comincia a farsi interessante. Purtroppo però ora devo proprio andare e devo trovare il modo di liquidare Luciana senza arrecarle dispiacere (potrebbe vendicarsi continuando a mettere in giro voci sulla mia cellulite!). In un momento in cui lei si distrae al cellulare, prendo immediatamente il mio e attivo l’allarme della sveglia, che è una simpatica suoneria. Quando suonerà, fingerò che sia Anna al telefono, la quale sta male a casa e mi chiede di andare in farmacia per delle medicine. Si, dirò così. Sono le 19:30, attivo per le 19:33. Bene! Luciana ha ora finito di operare al cellulare. Mi viene incontro con sguardo mortificato, dicendomi: “Ora devo andare! Mi dispiace! Continuerò a dirti tutto al corso, lunedì!”. Sono più contenta che mai. “Certo!”, urlo, e le do perfino una pacca sulla spalla muscolosa. Questo avrei potuto evitarlo. Ci salutiamo e contentissima faccio il mio ingresso in Carpisa. C’è un po’ di gente e non riesco a fare un ingresso sereno. Debbo dare almeno un paio di gomitate. In più, alle 19:33 puntuali il mio cellulare inizia a squillare: oh sole mio, sta ‘n fronte a te! Ho messo questa suoneria alla sveglia solo perché la mattina mi dovrebbe incutere gioia e buon umore, ma tutti mi guardano perplessi. Vedo una ragazzina in jeans e scarpe fucsia che mi guarda con un risolino sulla faccia. Sono stata ridicola! Accidenti! Spengo immediatamente l’allarme dicendo a voce alta: “La sveglia!”, e rido, come per giustificarmi. Ma nessuno ride con me. Va bene. Che vergogna! Abbasso la testa e mi metto alla ricerca della mia borsa, di quella che mi ruberà il cuore. Questa non mi piace. Questa neanche. Neanche questa! Cavoli! Guardo furtivamente l’orologio, sono le 19:40. Posso farcela! No, no, non ce la farò mai! Ma si che posso farcela! Ok. Appurato che qui da Carpisa non c’è la borsa della mia vita, razionalmente decido che devo abbandonare il negozio per dirigermi altrove. Il mercatino! Ma si, lo sanno tutti che al mercatino si trovano in fretta oggetti vari per le emergenze! E questa è un’emergenza! Tutti i miei acquisti sono un’emergenza, in verità, perciò mi ritrovo sempre alle bancarelle del centro. Mi dirigo verso il mercatino con passo veloce ed il cuore che batte forte. Sento il passare del tempo che incombe pesantemente sulla mia vita. Non ce la farò mai. Devo essere pronta per le nove! Accidenti! Entro nel mercatino e punto direttamente la bancarella delle borse. È l’unica, le altre hanno chiuso. Mi rendo conto di essere nel panico più totale. E il tutto per una borsa! Sto raggiungendo a passi enormi la bancarella che ho puntato da lontano quando mi accorgo che il proprietario sta chiudendo anche lui. Panico! Senza neanche accorgermene urlo a gran voce, ignara della gente che potrebbe sentirmi: “No! La borsa! Ti prego!” e nella confusione urto un ragazzo in giacca e cravatta ed una 24 ore in mano. “Scusa!”, gli dico con voce stridula. Lo guardo a malapena, e nell’euforia di essermi accorta che il proprietario della bancarella mi ha vista e intende servirmi, gli dico: “Sa, per un appuntamento! La borsa d’emergenza! In fin dei conti qui mi verrà a costare anche una miseria!”. Faccio per sorridergli, ma quello mi guarda con due occhi gelidi. Accidenti! L’ultima battuta avrei potuto risparmiarla. Ma non importa. L’importante è aver trovato la borsa! Ne sto vedendo una da qui! Sarà perfetta per questa sera! Guardo l’ultima volta il ragazzo, stavolta negli occhi. Accidenti, che bel moretto! Mi sembra quasi di conoscerlo, di conoscere quello sguardo. È come se ci fossimo già incontrati da qualche parte, forse in una vita precedente! E che figura che ho fatto! Mi scuso di nuovo e lui mi dice “No problem” prima che io scompaia nella folla in direzione della borsa che mi salverà la vita! Oh mia borsa di cinque euro! Tu si che mi hai salvato la vita!

Torno a casa soddisfatta ma sempre con il cuore in gola per via del tempo che stringe.
Mi faccio una doccia, poi apro l’armadio e con decisione ne estraggo le mie selezioni. Sarò pronta in poco tempo! Promesso! Sono solo le… oh, accidenti! Non ce la farò mai! Infilo i jeans in tutta velocità e tra balzi e strattoni cerco di tirarli su fino alla vita perché sono troppo aderenti, metto la magliettina e mi assicuro che la spalla sia ben in vista (ma andrà bene fuori la spalla sinistra o quella destra? Faccio solo qualche prova togliendo e rimettendo più volte la magliettina, fino a decidere che terrò scoperta la sinistra perché possa essere dalla parte del mio profilo migliore, e cercherò di mantenermi sempre alla destra di Francesco nel corso della serata) e ora sono di fronte allo specchio, matita alla mano e occhio chiuso.
Quasi senza poterci credere, alle nove riesco ad essere pronta e perfetta. Francesco è arrivato in anticipo di cinque minuti, ma l’appuntamento era alle nove, quindi mi prendo gli ultimi minuti in piena libertà per guardarmi e riguardarmi nello specchio. Per una volta, non sono io a essere in ritardo, è lui a essere in anticipo! Alle nove esco di casa e raggiungo piano il punto in cui ci siamo dati appuntamento. Sento il cuore che mi batte forte. Sto per incontrare Francesco! La verità è che ho paura. Io e Francesco ci siamo sentiti per così tanto tempo (due settimane ma più volte al giorno per tutti i giorni!) che sono arrivata quasi a idealizzarlo. Non ho mai visto neanche una sua foto. Paolo mi dice che è un bel ragazzo, ma come fare a credere a uno che ha pianificato un incontro “fortuito” tra  Anna e un nano di 32 anni con i capelli completamente grigi? Mi arrendo. Ho la sensazione che non sarà il caso di Francesco, ma non si sa mai. Tremo all’idea. Forzandomi un grande sorriso sulle labbra, affretto il passo stringendo il manico della mia stupenda borsa beige da cinque euro. Quando sono più o meno nelle vicinanze del nostro punto d’incontro, comincio a guardarmi intorno sperando d’intravederlo per prima io, così che potrò prepararmi psicologicamente ad affrontarlo. In verità, avevo pensato di nascondermi dietro al tronco di un albero o ad un palo della luce per spiarlo di nascosto e uscire dal mio nascondiglio solo se ne vale la pena. Ma no! Non potrei mai fare questo al mio Francesco. Mi sono imposta di prenderla in maniera matura e superiore, ripetendomi: Francesco è un’anima, non un corpo, Francesco è un’anima, non un corpo… E ora che mi avvicino sempre di più al punto dell’incontro e il cuore mi batte forte, comincio a ripetere a voce bassa la stessa formula, quasi tra me e me, con l’aria di una guru in fase di meditazione: Francesco non è un corpo, ma un’anima, Francesco non è un corpo, ma un’anima, Frances….. accidenti! Credo che andrò via in quattr’e quattro otto! Mi sta approcciando un bamboccio alto all’incirca un metro e sessanta, pelato (un po’ di capelli in testa al mio uomo non mi dispiacerebbero), che indossa un orribile giubbotto blu elettrico su un paio di jeans strappato. No! Non può essere lui! Questo è lo stile grandi marche di cui tanto parlava? Non appena mi si avvicina, gli dico con voce stridulissima che preannuncia palesemente il mio inevitabile imbarazzo (piuttosto, direi la mia delusione): “Piacere di incontrarti!”. La mia voce risuona falsissima. Lui mi guarda perplesso, come avesse visto un fantasma, e mi dice: “Uhm… per piazza Ariosto?”. Oh! Questo non è Francesco! Francesco è un corpo, ehm, cioè un’anima! Ma questo ora non c’entra. Quasi esulto senza accorgermene. Tiro un sospiro di sollievo e lo guardo con un grande sorriso sulle labbra. “Non sono della zona”, gli dico per liquidarlo in fretta (spiegargli adesso dove si trova la piazza che lui cerca vorrebbe dire interrompere i miei pensieri meditativi con i quali sto cercando di prepararmi al meglio per il mio primo incontro al buio). Guardo il tizio che se ne va con un’aria di delusione e io procedo per il mio cammino. Ma tanto ci sono, sono qui, al punto in cui dovremmo vederci. Mi guardo intorno per cercare con lo sguardo Francesco, sperando col cuore a mille di non avere una cattiva sorpresa. Mi fermo in un angolino e faccio per prendere il cellulare per chiamarlo e chiedergli dov’è, quando alle mie spalle sento un “Vanessa?”. È lui! È lui! Ed è qui alle mie spalle. Oh Dio, non ho il coraggio di voltarmi. Dai, Vanessa sei tu, voltati! E lui è Francesco, un’anima, non un corpo, ed è l’uomo con cui hai condiviso tanti bei momenti in queste ultime due settimane, l’uomo di cui ti stai segretamente innamorando, quello che per un istante è capace di farti dimenticare tutte le cose brutte che ti sono successe nel corso di una giornata anche solo con la sua voce, con una sua risata, con una sua parola, voltati, Vanessa, perché in qualsiasi modo sia fatta quest’anima alle tue spalle, tu te ne sei innamorata e oggi sei qui ad incontrarla, a conoscerla di persona. Voltati, Vanessa! Con estrema delicatezza, lentamente, mi volto verso di lui.
E ora stai calma, Vanessa. Mi sento rossa come un peperoncino. Lui mi sorride e io ricambio, ma il mio sorriso rimane stampato sulle labbra e sembro un’ebete. Non posso crederci! Francesco è un corpo… e che corpo!! Ma soprattutto… io questo volto lo conosco! Ci siamo incrociati… sono sicura che ci siamo… ma si! È il ragazzo moro che ho urtato poco fa al mercatino, quando ero diretta a prendere la mia… Accidenti! Come ho fatto a non accorgermi subito che era lui? D’impulso tendo a nascondere la borsa dietro la gamba destra, ma non potrò tenerla così per tutta la serata. Quindi, questo vuol dire che Francesco è il bel moretto in giacca, cravatta e 24 ore che ho incrociato prima di venire qui, al nostro appuntamento? Anche lui sembra riconoscermi. Me lo conferma perché mi sta dicendo: “Io ti ho già incontrata! Ci siamo visti prima…”. “Si!”, lo interrompo con voce stridula. “Al… mercatino! Ehm… già”. Avrei potuto evitare la parola “mercatino”, magari si era dimenticato di avermi incontrata lì e io gliel’ho ricordato!
Ora siamo seduti al tavolino di un lounge bar per prendere qualcosa da bere e mi pare che come primo approccio di persona non sia niente male. Stiamo ridendo, ci stiamo conoscendo e ad un certo punto lui mi tiene anche la mano. Me la stringe, me l’accarezza e io glielo lascio fare, infondo è come se ci conoscessimo da molto più tempo. Mi sta raccontando le sue aspettative e i suoi preparativi di un viaggio a cui mi aveva accennato anche per telefono e che ormai è imminente, andrà in Scozia tra soli due giorni per incontrare un suo importante cliente. Io lo guardo mentre parla, sono rapita dal suo modo di comunicarmi non solo con le parole ma anche con lo sguardo, e all’improvviso mi ritrovo ad immaginarmelo seduto sulla tazza con un asciugamano sotto le cosce… Ehm, distolgo i pensieri… è così bello! Ha i capelli lisci e corti, gli occhi nerissimi, così neri che non si possono distinguere le pupille, ha le guance rosse come avesse preso un po’ di sole durante il giorno, le labbra carnose, sempre contornate da un sorriso irresistibile. Io comincio ad avere un leggero giramento di testa per via di una Tennent’s nove volumi che comincia a fare effetto, ma continuo ad ascoltarlo, rapita. “Ci vuoi venire con me?”, mi sta chiedendo adesso. Mi coglie completamente impreparata. Sta dicendo che io potrei partire insieme a lui in Scozia, laddove andrà per lavoro per una settimana? Sta dicendo che io e lui si potrebbe partire insieme? Io e lui sullo stesso aereo, nello stesso hotel, nella stessa… ehm! Sta dicendo proprio questo? Lo fisso un attimo perplessa. Mi viene alla mente che forse l’effetto birra mi sta giocando brutti scherzi. “Cosa?”, chiedo. E lui lo ridice, proprio con le stesse parole di prima: “Ci vuoi venire con me?”. Per essere sicura d’aver capito bene, gli chiedo: “Dove?”, immaginando che potrei essermi persa qualche parte del discorso e che mi stia chiedendo semplicemente di accompagnarlo alla toilette, o forse ad acquistare un nuovo paio di infradita da doccia. “In scozia!”, esclama, alzando un sopracciglio. Mi pare mi stia prendendo per matta. Resto per qualche secondo a fissarlo ancora, prima di trovare qualcosa di sensato da dire: “Splendido!”, esclamo. Splendido? Mi sta invitando in viaggio e tutto quello che riesco a dire è “splendido”? In realtà vorrei dirgli che non potrei desiderare di meglio, che andare in Scozia con lui (un corpo e un’anima straordinariamente in sintonia l’uno con l’altra!) non potrebbe che essere meraviglioso, che accetto, accetto subitissimo! “Non dovrai fare niente. Dovrai solo preparare le tue valigie, al resto ci penso io”, sta dicendo. Mi riprende la mano, che aveva lasciato solo per un istante, e l’accarezza dolcemente. Poi mi guarda negli occhi e mi chiede: “Allora? Vieni con me?”.

C’era una volta una ragazza di nome Vanessa Della Bona che doveva scrivere un articolo per il giornalino della scuola elementare del comune di San Fiorano. Ma ora parte in Scozia, e non lo scrive più!


S. Giorgino
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