Scritta scorrevole

"Go as far as you can see, when you get there, you'll be able to see further" (T. Carlyle)

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Insegnante di inglese appassionata di scrittura e di fotografia e profondamente innamorata degli animali. Questo blog è un ampio rifugio in cui condivide passioni, letture, riflessioni, novità sui suoi libri e molto altro. INSTAGRAM: @simona_giorgino (profilo autrice), @photosfromthewind (profilo fotografico).

sabato 12 dicembre 2015

L'esistenza ha un non so che di nostalgico già nel momento stesso in cui la vivi.

Alzo la testa dai libri, interrotta da un rumore: uno spadellare deciso in cucina. Non è il tuo, è quello di una nuova amica, in una casa posizionata lungo una strada incerta fra la fermata della metro e la scuola. Ci cammino di mattina, immersa in una nebbiolina fresca, pungente, grigia, che lascia assaporare lentamente la nascita del giorno. Il lungo viale, dapprima sconosciuto, inizia pian piano a prendere le fattezze di un amico: i soliti alberi arancioni che presto saranno completamente spogli, i soliti negozi sui lati, volti noti nella cartoleria, vicini di casa sempre uguali, vecchi tram che scivolano rumorosi sulle rotaie. La fisionomia della strada mi diventa familiare. Poi, alla curva, una distesa di chiome verdi immerse nella nebbia, al di là della quale non mi è dato sapere cosa si trova, perché la mia mente e il mio corpo si fermano prima, di fronte al cancello della scuola. Mi posiziono dapprima al grande tavolo rettangolare, dove assaporo la sensazione della novità e l'odore della carta, e lascio gli impegni farsi largo nella testa. E mentre la campanella annuncia che è già ora di entrare in classe, il sole sorge dietro ai palazzi, senza farsi notare, come un bacio schioccato segretamente da due adolescenti innamorati durante la ricreazione. 
C'è posto per ogni emozione, nessuna è esclusa. Perché la vita è questo: vivere ogni piccola cosa fino in fondo, lasciarsi travolgere da tutto quello che un umano è capace di provare. 
L'esistenza ha un non so che di nostalgico già nel momento stesso in cui la vivi. Sarà la consapevolezza della caducità, delle cose che passano e che non tornano. Sarà che, crescendo, la vita si popola di conseguenze note, di risultati prevedibili. Ho la sensazione tutta nuova che l'imprevedibile non sia il futuro, ma il presente. Accade così, senza preavviso, quando la vita che vivi non è più nella testa, ma nella realtà. Per il futuro c'è sempre spazio - nel fine settimana - ma il presente non ti lascia scampo. E mentre l'oggi accade, senti già un po' di nostalgia per quando, molto presto, diventerà domani.





Simona



giovedì 12 novembre 2015

Un estratto da "Schegge tra le righe", di Marzia Ercolani

Fra i tanti scritti presenti sul numero 10 della rivista "La Fornace" di cui vi ho parlato QUI, vorrei proporvi la lettura di un breve estratto che io ho trovato eccezionale. La sua originalità e la sua intensità mi hanno conquistata. Ho messo l'orecchietta alla pagina affinché possa sempre trovarla a primo colpo tutte le volte che ho voglia di rileggerla.






L'altro è una porta. Il rispetto è chiedere permesso per entrare, anche se la porta è aperta. Se è chiusa maggiormente. Sto imparando a bussare lieve. Mi alleno da sola, a casa, a fare toc toc. Ho composto innumerevoli ritmi, testimoni della mia ricerca, del mio studio, dei miei tentativi. Il mio desiderio di punta di piedi è estremo, incommensurabile, urgente. Eppure, davanti ad una porta, dopo anni di nocche arrossate in casa, l'emozione in me è così intensamente potente, così forte, così incontenibile, che paura mi pervade, goffaggine mi assale, ansia mi aggredisce, aggressività mi maschera, erotismo mi spalleggia e mentre infilo le scarpette di gesso perdo l'equilibrio, capitombolo sulla porta e la sfascio. Se è aperta ruzzolo malamente travolgendo ogni cosa fino ad uscire dalla porta di servizio.


da Diario di una ripetente,
di Marzia Ercolani.
Rivista La Fornace, Agosto 2015.




venerdì 6 novembre 2015

"Mille vie fino a te" - un racconto di Simona Giorgino (La Fornace)

Cari lettori,

di recente è uscito un mio racconto, pubblicato sul Numero 10 de "La Fornace", rivista letteraria di Galatina (Lecce).
Il racconto s'intitola "Mille vie fino a te", titolo su cui devo aver perso dieci chili (sono sempre stata una schiappa con i titoli!) e di cui non sono neppure totalmente soddisfatta (come al solito!). Sento infatti che non è propriamente il titolo che cercavo, ma avevo fretta di consegnare il lavoro completo e quindi alla fine ho dovuto dargli il primo titolo che mi è venuto in mente.
Tuttavia, Mille vie fino a te ha un suo perché ed ha anche una spiegazione logica!
Il racconto, infatti, vede una protagonista confusa, Elisa, che attraversa una fase di vita segnata da una storia d'amore allo sbando, alla quale segue un incontro casuale che le darà motivi di riflessione.
Da un lato un ragazzo che sembra perfettamente in sintonia con lei, che la segue lungo le impervie strade della sua personalità femminile, che riesce ad alleggerirle la vita strappandole da dentro il peso dei pensieri e delle sofferenze, dall'altro lato l'amore di sempre, quello che l'ha vista crescere, che l'ha conosciuta nei momenti più bui e in quelli più felici, che si è radicato nella sua vita con la sua presenza insostituibile e senza il quale l'esistenza sembra vuota e triste.
Ma Elisa sentirà di dare il cuore a uno solo dei due, e lo farà non senza le intemperie, i ripensamenti, i dubbi, la confusione, che rappresentano le mille vie da percorrere prima di raggiungere l'amore.







Nella rivista, come vedete dalla colonna dei cognomi, sono presenti molti altri autori meritevoli che hanno contribuito al numero con i loro scritti - poesie, racconti, saggi - e, credetemi, hanno tutti qualcosa da regalare al lettore! Io, almeno, su molti di loro ho trascorso dei piacevolissimi momenti!




È possibile acquistare la rivista presso la libreria Fabula,
sita in Corso Porta Luce, a Galatina (LE).





Se vi va, potete leggere un breve estratto del mio racconto 







Simona



martedì 13 ottobre 2015

Il ragazzo che non voleva viaggiare.

Ai tempi dell'Università, specialmente negli anni della laurea triennale, quando studiavo arabo ed ero completamente rapita dal fascino del Medio Oriente, amavo immergermi in letture che mi trasmettessero il sapore di quei posti lontani. Avevo nel cassetto il sogno di fare un viaggio nel mondo arabo, immaginavo di poter andare a Damasco, in Egitto, o magari in Marocco. 
Fu così che un giorno mi imbattei in questo racconto. Ero alla ricerca di storie di viaggi, racconti di esperienze vissute in qualche posto lontano ed esotico. Avevo voglia di leggere le testimonianze di chi era partito, di chi aveva intrapreso uno di quei lunghi viaggi che ti cambiano la vita o da cui non vorresti più tornare. Avevo voglia di lasciarmi trasportare lontano e di sognare a occhi aperti. 
Leonardo Soresi, con il suo racconto "Il ragazzo che non voleva viaggiare", riuscì a fare tutto questo.  



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IL RAGAZZO CHE NON VOLEVA VIAGGIARE
di Leonardo Soresi



Un lento gocciolio d’acqua si stacca silenzioso dalla tunica di cotone di un uomo, tracciando una scia scura sulla sabbia gialla. Normalmente quella goccia non attirerebbe la mia attenzione, ma quell’uomo sono io e la sabbia su cui cammino è quella dell’erg El Rhoual, un oceano di dune nel Sahara marocchino. Mi sono accorto troppo tardi di un piccolo foro nella guerba, l’otre in pelle di capra che porto a tracolla e ora sono rimasto senz’acqua: un bel guaio considerando che sono a oltre 200 km dai primi segni di civiltà.
Sono completamente solo: a farmi compagnia è rimasto il mio vecchio zaino, che mio padre mi aveva regalato per il diciottesimo compleanno. Povero papà… mi vedeva sempre chiuso in casa, chino sui libri: aveva paura mi dimenticassi di vivere la giovinezza. Nello zaino aveva messo anche un biglietto InterRail: era tutto quello che poteva permettersi, ma era molto più di quanto servisse per cambiarmi la vita. Mi viene da sorridere ripensando alla mia delusione quando avevo aperto il pacco: sapeva che desideravo tanto un nuovo computer! Come aveva potuto pensare che mi interessasse viaggiare su un sedile di treno, sporco e puzzolente come un barbone? Io non volevo viaggiare. Volevo diplomarmi con il massimo dei voti, iscrivermi alla Bocconi e diventare un manager ricco e invidiato. E lasciare quel buco di paese in cui le ragazze non avevano occhi che per teppistelli su motorini rumorosi. Quel primo viaggio… che tenerezza ripensarci adesso, disteso sulla calda sabbia del deserto! 
Allora credevo che viaggiare non fosse altro che visitare i musei indicati nelle guide. Quell’esperienza mi aveva insegnato che in un viaggio si scopriva ben altro, come gli occhi verdi di una ragazza dai capelli rossi che sedeva in fondo ad un bistrot parigino, triste, dopo che un ragazzo si era alzato dal suo tavolo e, senza salutarla, se n’era andato. O come quel ragazzo londinese, riverso in una pozza del suo stesso vomito, che aveva cercato una fuga disperata in una siringa. Ma anche il grande mare oceano che al tramonto inghiottiva il sole al largo delle isole Aran. 
In quel viaggio imparai a concedermi il tempo per conoscere le persone, scoprendo che sono infinite e inaspettate le storie che si celano dietro ogni uomo. Tornato a casa, niente era più come prima: i miei amati libri ora mi sembravano incompleti, aridi, perché pretendevano di raccogliere in parole e formule tutto quello che c’era là fuori, che senza sosta nasceva e moriva, cresceva e sfioriva, lasciando dietro di sé niente altro che orme sulla sabbia che presto il mare del tempo avrebbe cancellato.
Il Khamsin riprende a soffiare dolcemente e mi porta alle narici l’odore delle distese sabbiose. Chiudo gli occhi e ripenso al primo incontro con il deserto, quasi una rivelazione, nel Fezzan libico. Quella notte mi ero allontanato dai fuochi del bivacco per vedere meglio l’immensa notte africana, pazza di stelle, che fa brillare gli occhi di chi si ferma a guardarla. Ad un tratto avevo avvertito una vertigine, quel “battesimo della solitudine” di cui parlano le guide tuareg: avevo sentito il mio spirito espandersi all’infinito verso quell’immensità deserta, avventurandosi nelle profondità della notte. Era l’incontro con qualcosa di più grande, forse Dio, forse l’anima della terra. Come essere senza peso, trasportati via lontano da un alito di vento. Come rimanere sospesi oltre l’orlo di un precipizio per sempre. Nessuna droga poteva dare una sensazione del genere. 
Da quel giorno erano iniziate le mie peregrinazioni sahariane: Murzuq, Tassili, Acacus, Tanezrouft, Tenerè. Per gli altri erano solo nomi dati ad un immenso Sahara che credevano tutto uguale, mentre per me erano diventati luoghi amici che mi avevano impregnato di amore per la terra e per gli uomini che la abitano.
Ma adesso sono arrivato alla fine della strada e ben presto diventerò parte di questa sabbia di cui ormai porto il colore e l’odore. Che senso ha avuto il mio viaggiare? Non riesco a provare paura, ma solo rimpianto per i luoghi che non riuscirò a vedere. Ho sempre saputo che in queste spedizioni africane poteva capitarmi l’imprevisto e morire… ma la morte non è un prezzo abbastanza alto per rinunciare a tutta la bellezza del mondo. Ho imparato che non bisogna diventare schiavi della paura, rinchiudendosi a doppia mandata dietro pesanti porte blindate, in case sicure in cui la vita ha cessato però di abitare. No, meglio morire ma per fortuna anche vivere. Perché vivere è un viaggio senza mappa né bussola, in cui solo la paura e la prudenza ti fanno smarrire.
Chi torna da un lungo viaggio si stupisce nel vedere gli amici d’infanzia, invecchiati e ingrigiti, soffocati da matrimoni senza slanci, da occupazioni che non amano. Da giorni tutti uguali passati ad annegare il malessere, chi con un’amante, chi davanti ad un televisore. Da scelte prudenti e sicure che non lasciano mai lo spazio per inseguire un sogno che fa battere il cuore. Chi viaggia torna invece con qualche ruga e qualche capello grigio in più, ma nei suoi occhi continua a brillare la scintilla dei vent’anni. Gli altri guidano auto sempre più grandi in orizzonti sempre più ristretti; lui si sposta a piedi, ma il mondo è diventato la sua casa. Gli altri ricorrono a chirurghi estetici e diete miracolose, tutti preoccupati di aggiungere anni alla vita; lui, viaggiando, aggiunge vita agli anni che gli sono stati dati. 
Sono felice e orgoglioso della vita che ho scelto: mi alzo e decido di camminare fino a cadere stremato per terra, non per cercare un’improbabile salvezza in mezzo al mare di sabbia, ma per gridare al vento che la mia vita altro non è stata che un voler guardare cosa c’è al di là dell’orizzonte.
Mi incammino lentamente su su per il crinale della duna. Arrivato in cima mi fermo a guardare il panorama disegnato dai cavalloni di sabbia. Il cuore mi si apre d’amore per il mondo. Poi guardo in basso per iniziare la discesa e la vedo: una semplice, piccola pozza d’acqua, una guelta sahariana, uno di quei miracoli che chi non ha attraversato il deserto non sa apprezzare. Mi siedo e mi metto a ridere. Se qualcuno mi vedesse ora, seduto a gambe incrociate mentre rido nel silenzio degli spazi infiniti, penserebbe che sono pazzo. Se guardasse l’acqua della guelta vedrebbe invece riflessa l’immagine di un ragazzo che non voleva viaggiare, diventato un uomo che viaggia tra la sabbia e le stelle, rimanendo ragazzo.









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Simona




lunedì 12 ottobre 2015

RACCONTO: "La notte di Natale", di Vincenzo Lumenti

Un racconto di Vincenzo Lumenti
LA NOTTE DI NATALE






Eugenio Scopece viveva in un piccolo centro dell’entroterra foggiano. Era un giovane robusto, aveva un viso un po’ arcigno e, forse per queste sue caratteristiche, il Podestà del paese gli aveva affidato la custodia del piccolo carcere mandamentale dove venivano stazionati furfantelli o persone in attesa di giudizio per piccoli reati. Ma, ad onta del suo aspetto duro, aveva un cuore d’oro e si sforzava sempre di rendere meno pesante la permanenza ai detenuti che soggiornavano nel “suo” carcere intrattenendo con loro rapporti di amicizia e di cordialità.
Nei piccoli paesi era d’uso identificare le persone con un nomignolo in base all’attività che svolgevano, a lui toccò quello di “carceriere” che, seppure poco gradito, conservò per tutta la vita.
Il complesso che gli era stato affidato era costituito da un piano terra dove era collocato il suo ufficio e tre celle per i detenuti, mentre al primo piano erano sistemate una grande cucina, la camera da letto, il bagno e un ripostiglio.
Lo stipendio, anche se non eccessivo, era sufficiente per le sue modeste esigenze e il “posto fisso” gli permetteva finalmente di pensare a crearsi una famiglia.
Allora cominciò a guardarsi attorno e posò gli occhi su una ragazzotta che, per le sue caratteristiche (bionda, con le trecce e tante lentiggini), gli sembrò la più adatta al suo progetto di vita. Ma la ragazza, figlia di un benestante terriero, sembrava lontana mille miglia dai suoi pensieri che, certamente, avrebbero potuto tradursi in una possibile illusione.
Dopotutto, pensava, l’illusione non è forse la speranza che ci sia sempre una possibilità? E allora perché non tentare?
Preso il coraggio a due mani, una sera si presentò ai genitori della giovane, chiedendone la mano. E mentre il padre si intratteneva con lui parlando del più e del meno, come il tempo e i lavori della stagione, la madre in un’altra stanza informava la figlia, Maria Rosa per la precisione, della richiesta di Eugenio.
La giovane si dichiarò disponibile e le nozze vennero fissate dopo il raccolto e, come d’uso, venne stilata la “lista dei panni” (il corredo) che toccava portare alla sposa e concordata la dote consistente in due ettari di terra e tre case al piano terra.

Una volta sposati, i coniugi andarono ad abitare nell’appartamento al primo piano del carcere, mentre le tre case e la terra furono date in affitto, il cui ricavato contribuì ad accrescere le entrate della famiglia.
Maria Rosa aveva il senso del risparmio ed era attenta a qualsiasi iniziativa che potesse migliorare la loro posizione economica, quindi suggerì al marito, qualora il Podestà fosse stato d’accordo, che fosse lei a cucinare per i detenuti piuttosto che far venire i pasti dall’esterno. La sua proposta venne accettata e così la loro dispensa, da quel momento, si trovò piena di ogni bene di Dio e anche i detenuti ne trassero giovamento da una cucina casalinga e più genuina.
La loro unione venne finalmente allietata anche dalla nascita di un bel bambino che chiamarono Cecchino, diminutivo di Francesco.

Ormai erano trascorsi sette anni dal giorno del loro matrimonio e l'inverno si preannunciava già abbastanza rigido sin dalla prima metà di Dicembre. Eugenio pensò bene di rifornirsi di carbone per la cucina e di legna per la stufa e fu proprio in quel periodo che le porte del carcere si spalancarono per accogliere un giovane ladruncolo.
Come era sua abitudine, Eugenio gli fece visita nella cella chiedendogli se avesse bisogno di qualcosa, ma il ragazzo, perché di un ragazzo appena diciottenne si trattava, invece di rispondere scoppiò in un pianto dirotto. Dopo essersi calmato cominciò a parlare:
«Mi chiamo Andrea Sardella, e ho sposato appena da due giorni la mia Carolina, con la quale ho fatto la “fuitìna”, e stamattina desideravo regalarle qualcosa di buono ma in tasca non avevo un soldo così pensai di rubare una stecca di cioccolato al supermercato, ma sono stato scoperto, denunciato e arrestato. Ora sono davvero pentito per quello stupido gesto e giuro che mai più mi farò tentare da pensieri cattivi.»
Eugenio cercò di calmarlo assicurandogli che il pretore presto avrebbe esaminato bonariamente la sua posizione e che per Natale sarebbe tornato a casa. Purtroppo il caso volle che il pretore fosse in ferie in quel periodo, per cui il fermo del ragazzo fu prolungato di una settimana.

Arrivò la vigilia di Natale, la notte sarebbe nato Gesù Bambino ed Eugenio il “carceriere” anziché prepararsi a vivere la solennità del momento nella gioia con la sua famiglia, si sentiva profondamente triste e turbato, tanto che ne parlò con Maria Rosa.
«Ascoltami, il buon Dio ci ha dato tante cose ma che senso ha averle se non possiamo condividerle con chi ne ha più bisogno di noi? Io provo tanta pena per quel ragazzo che è in prigione e che sarà costretto a vivere il Natale da solo e lontano dalla sua sposina per cui avrei un progetto, ma desidero la tua approvazione e collaborazione prima di metterlo in atto. Tuttavia ti confesso che la cosa non mi lascia del tutto tranquillo.»
La moglie, che ormai conosceva bene la bontà d’animo del marito, intuendo che doveva trattarsi di qualcosa di speciale e intrigata dalle sue confidenze, lo incoraggiò a parlare dicendogli:
«Non lasciare mai che i tuoi progetti restino solo buoni propositi. Se nelle tue cose non arrivi fino in fondo allora non vale la pena neppure di cominciare.»
«Ma è una scelta difficile e rischiosa, e ho paura per le eventuali conseguenze» rispose lui.
«Nella vita c’è sempre una scelta…» riprese la moglie, «ma qualche volta è più facile pensare che non ci sia. Dunque, animo, e non aver paura perché non c’è da aver paura se non della paura stessa. Ogni giorno il Signore ci offre due occasioni: possiamo scegliere di far del bene o restare indifferenti.»
Fu così che, spronato e incoraggiato da quelle parole, Eugenio espose alla moglie il suo piano e si organizzarono per metterlo in atto e portarlo a buon fine.
Il ragazzo venne scarcerato il 29 Dicembre e, dopo una ventina di giorni partì per gli Stati Uniti raggiungendo uno zio che faceva il cuoco nella villa di una vecchia signora inglese e di lui non si seppe più nulla nel paese.

Intanto la vita di Eugenio e Maria Rosa continuava a scorrere sui binari della normalità, fino a quando un avvenimento aveva turbato la loro quotidianità: lo stato di salute del figlio Cecchino che fu costretto a letto perché non riusciva più a camminare. Dapprima si era pensato a una semplice infiammazione della gamba curabile con i soliti unguenti e le solite pomate, poi, visti gli scarsi risultati, si decisero a interpellare uno specialista delle ossa. Da quel momento per loro iniziò un vero calvario. Per sopperire al costo elevato dei medicinali, delle rette ospedaliere, degli onorari agli specialisti e degli alberghi furono costretti a vendere prima la terra e poi due delle tre case che la moglie aveva portato in dote ma i loro sacrifici non sortirono alcun effetto positivo. Il ragazzo, colpito da un’osteomielite ossea, dopo circa due anni di sofferenze, cessò di vivere.
Trattandosi dell’unico figlio per i due genitori fu un colpo tremendo che li segnò profondamente nel corpo e nello spirito, tanto che Maria Rosa a un certo punto cadde in deliquio e dopo qualche anno anch’essa morì.
Rimasto solo e costretto a vivere nell’unica casa che gli era rimasta, Eugenio, ormai vecchio, trascorreva le sue giornate in un continuo dormiveglia, una specie di coma durante il quale riviveva i ricordi del suo passato. Godeva delle attenzioni e della carità dei vicini che lo aiutavano nella pulizia personale e gli cucinavano qualcosa da mangiare mentre lui, cosciente, aspettava con serenità la sua ora…

Mancava qualche giorno a Natale e fu proprio in tale occasione che Eugenio ricevette la visita di un attempato signore con suo figlio.
«Buongiorno signor Eugenio, perché lei è il signor Eugenio Scopece,vero?»
«Sì, sono Eugenio Scopece, e lei chi è?»
«Io sono Andrea Sardella e questi è mio figlio. Si ricorda di me?»
«Andrea Sardella! Ma certo che mi ricordo di te, figliolo. Vieni qui e fatti abbracciare!» 
I due si strinsero in un affettuoso abbraccio, poi Eugenio continuò: «Vedi, come il maestro rammenta il cognome di tutti i suoi alunni, io ricordo perfettamente quelli di tutti gli ospiti che ho avuto nel “mio” carcere. Ma ti prego, prendi una sedia e siediti vicino a me. Dimmi: come mai ti trovi in Italia e perché sei venuto a trovarmi ?»
«Durante tutta la mia vita non ho fatto altro che pregare il buon Dio che mi concedesse di tornare un giorno in Italia, rivederla ed esprimerle la mia gratitudine e la mia riconoscenza per quello che lei ha fatto per me. Il suo è stato un gesto umanitario bello e commovente, qualcosa che mi ha segnato per sempre e che non potrò mai dimenticare. In famiglia talvolta accennavamo a quell’episodio senza, peraltro, entrare nei particolari. Ora vorrei che fosse lei a raccontare a mio figlio tutto quello che successe quella famosa notte di Natale.
«Oh, sì… quella famosa notte di Natale…»
Eugenio si schiarì la voce e, rivolgendosi al giovane, cominciò il suo racconto:
«Ora posso parlare liberamente perché non ho più nulla da temere. Vedi, tuo padre, a quell’epoca, aveva circa diciotto anni, era soltanto un ragazzo impaurito per quello che gli era successo e addolorato per aver dovuto lasciare sola la moglie che aveva appena sposato. Il pensiero che lui avrebbe dovuto passare la vigilia di Natale in carcere da solo mentre tutti fuori festeggiavano la nascita del Bambino, mi rendeva triste e angosciato. Così mi venne un’idea balzana e rischiosa perché, se qualcosa fosse andata storta, avrei perso certamente il posto di lavoro. Ne parlai con mia moglie e, insieme, decidemmo quello che allora ci sembrò più giusto e umano fare, e cioè invitare a casa nostra la giovane sposina perché trascorresse la notte di Natale e il giorno successivo con noi e con tuo padre. Sì, con tuo padre al quale aprii la porta della cella facendolo accomodare alla nostra tavola vicino alla sua sposa. Dopo la cena cedemmo loro la nostra camera da letto e lasciammo che i due giovani assaporassero fino in fondo ogni momento della loro felicità. Tutto filò liscio e qualche giorno dopo tuo padre lasciò il carcere con il fermo proposito di non tornarci più.»
Eugenio tacque e Andrea, commosso più che mai, abbracciò il vecchio promettendogli che in qualche modo, avendone la possibilità, avrebbe provveduto a lui.
Il giorno dopo si recò dal Sindaco chiedendogli se era possibile sistemare il vecchio carceriere in una struttura per anziani dichiarandosi non solo disposto ad accollarsi personalmente qualsiasi spesa ma anche a offrire un congruo contributo per lo sviluppo della struttura stessa sostenendo che il vecchio, dopo i suoi trascorsi, non meritasse di trascorrere il Natale in solitudine ma viverlo in compagnia come ogni buon cristiano.
Il Sindaco, commosso da quella calorosa partecipazione ma allettato anche dall’offerta, prese il telefono e chiamò la Direttrice della Casa Opus Dei.
«Sorella, nella sua Casa ci sarebbe posto per un vecchio indigente?»
«Mi spiace, Signor Sindaco, ma attualmente abbiamo tutte le stanze occupate.»
«Ma non ci sarebbe una più grande delle altre in cui sistemare provvisoriamente un altro lettino? Sa, ci terrei in modo particolare! Insomma è un favore personale che le sto chiedendo.»
«Va bene, allora lo faccia venire domani e cercheremo di sistemarlo.»
Fu così che Eugenio, il vecchio “carceriere”, lasciò la sua casa per trasferirsi in carrozzella alla Opus Dei proprio il giorno della vigilia di Natale.
Dopo la ricca e abbondante cena, alla fine della quale bevve anche dello spumante offerto dalle Dame della Carità, partecipò con gli altri ospiti alla piccola processione per la deposizione del Bambino Gesù nella mangiatoia del presepe allestito nella chiesetta della Casa e infine, stanco ma contento, si ritirò nella sua cameretta.
Prima di addormentarsi gli tornò in mente la famosa notte di Natale di tanti anni fa quando, mettendo a rischio il suo stesso avvenire, era riuscito a dare un poco di felicità a un giovane ragazzo e alla sua sposina. Capì che la buona azione, per volontà divina, gli era stata ricambiata e ringraziò il Signore che aveva voluto ricompensarlo con la pace e la serenità per il tempo che gli restava ancora da vivere.




Vincenzo Lumenti




sabato 10 ottobre 2015

RACCONTO: "Ventisette", di Carlo Stromboli


Per la sezione "Invia il tuo racconto!":
Ventisette, di Carlo Stromboli

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La facciata orientale del carcere di Poggioreale presenta ventisette finestre, che, a intervalli regolari, occupano l’intera lunghezza del muro.
Da sei anni sono in Italia e ogni mattina, all’alba, sono nel centro direzionale di Napoli. Non so bene cosa vuol dire direzionale.
“Buongiorno.”
In italiano non conosco parole difficili. In realtà neanche nella lingua del mio paese di origine, il Libano. Ho sempre pensato che le parole difficili non fossero utili a rendere la vita più semplice, più bella, più serena. Alcune in realtà le conosco, ma cerco di non usarle. Non danno il pane.
“Buongiorno signora.”
Sono arrivato qui in Italia a venticinque anni. Da solo. Nel nostro paese ne sentivamo parlare come fosse l’America. Possibilità, tranquillità, sole. Sicurezza, pace.
“Ciao. Buongiorno.”
Ho scoperto che non è proprio così. Sì, si riesce a vivere senza pensare sempre alla possibilità che scoppi una guerra. Senza la paura di non essere liberi. Non è però facile sistemarsi. Sperare di rivedere le persone della propria vita, del proprio cuore.
Mi piace ascoltare musica.
“Buona domenica, signora. Grazie.”
Mi ricordo il giardino di peschi, quello in cui per la prima volta ho baciato Joele. La mia donna. Che non vedo da sei anni, ma a cui dedico i miei sforzi. Le mie speranze.
“Ciao bello. Grazie.”
Ho solo lei ora nel mio paese. Mio padre è venuto a mancare, così dicono in Italia, è morto due anni fa.
“Salve, grazie. Buon appetito.”
Era un uomo severo, di vecchio stile, qui dicono stampo mi sa, ma non ne sono sicuro.
Rigido. Aveva un’espressione dura sul viso. Ha sempre lavorato, con forza, con fantasia.
Aveva una piccola fabbrica di bicchieri. Vendeva e produceva solo bicchieri di plastica e carta. Insieme ad altri oggetti come piatti e posate, sempre di carta e plastica. Solo questo. Ma a quel tempo fu uno dei primi a produrli in Libano. Anche lui a modo suo ha lottato per l’indipendenza. Non dovevano più necessariamente arrivare dall’Europa. Necessariamente è una parola lunga, ma non difficile.
“Ciao, grazie.”
Quand’ero piccolo mi ricordo che in primavera all’imbrunire, poco prima del tramonto, ci mettevamo tutti i bambini nel giardino della nostra casa. Tutti i cugini.
Aspettavamo un soffio di vento e poi, con i bicchieri che eravamo riusciti a rubare nel negozio di papà cercavamo di prendere le foglie che volavano. Che cadevano dalle piante. I petali. Quelli rosa. Quelli delle piante di pesco.
“Buongiorno. Grazie.”
Qui in Italia mi piacciono le persone. Quasi tutte.
Qui a Napoli mi piacciono le persone.
“Grazie.” 
Qui al centro direzionale mi piacciono le persone.
Mi piace osservarle.
“Buonasera signora.”
Mi piace la loro sicurezza. La loro timidezza.
Il loro modo di voler coprire sé stesse e vestire di altro. La sincerità nei loro occhi.
Il lavoro loro ce l’hanno. Mi piacerebbe lavorare.
Mi piace l’odore di via Torino, mi ricorda la strada in cui sono nato.
Mi piacciono i mille negozi di pizza e di cibo. Mangiare è una cosa bella. Molto.
“Grazie. Buonasera.”
Quel ragazzo di quarant'anni che vedo ogni mattina, con la barba incolta e il viso scuro. Naso un po’ sporgente. Alto. Con la giacca nera sul maglione marrone. Maglione che sopporta il caldo e il freddo del suo petto. Le sue gambe incrociate che terminano in scarpe per la ginnastica un po’ consumate. I denti gialli. La mano destra sempre in tensione. Lo sguardo sognante, a volte stanco. Vivo. Occhi sognanti. A volte stanchi. Occhi vivi.
“Ciao. Grazie.”
Come sono cambiato in questi anni. Non sembro quasi più io.
“Buonasera. Grazie.”
Mi piace la statua di Garibaldi. So chi era. Penso che la vita sia piena di sorprese.
Prima o poi tornerò da Joele. Guarderò il mare. Toccherò la sua sciarpa.
Devo aspettare solo altri due anni.
“Grazie. Buonasera.”
Una volta sono entrato in una di queste torri. Una di quelle tutte finestre. Che riflettono la luce del sole. Ho preso l’ascensore e sono salito in alto. Mi piace l’ascensore, mi ricorda il negozio di mio padre. Erano due piani, con l’ascensore per le merci. A volte mi nascondevo lì.
“Buonasera, grazie.”
Sono salito a un piano alto.
Oh, Cristo. Che bella vista.
Ho visto il mare, persone che camminano, il treno. Anzi due, uno fermo, uno in movimento. Capri. Cupole di chiese. Ce ne sono tante a Napoli. Garibaldi. Lui però ci ho messo un po’ per vederlo.
“Grazie signora. Buonasera.”
Credo che i colori, gli odori, il gusto, la sensazione sulle dita quando si tocca una panchina, una colonna, un bicchiere, siano i sensi. Della vita.
“Ciao, grazie.”
Quando viene l’imbrunire, prima del tramonto, e una moneta cade nel bicchiere della mia mano destra il rumore che arriva alle mie orecchie è quello di quando un petalo vola, e poi cade. Io ringrazio, ma la mia mente è in un giardino lontano, a rincorrere foglie, petali, rosa.
“Grazie. Buonasera.”
Due anni e mio fratello uscirà del carcere di Poggioreale. Lo hanno messo dentro, così dicono qui, perché ha rubato in Libano per trovare i soldi del viaggio per me e per lui.
“Buonasera. Grazie.”
Ogni sera, al tramonto, sono nel centro direzionale di Napoli. Non so bene cosa vuol dire direzionale.
La facciata occidentale del carcere di Poggioreale presenta ventisette finestre, che, a intervalli regolari, occupano l’intera lunghezza del muro.
Al tramonto il rumore che arriva alle mie orecchie è quello di quando un petalo vola, e poi cade.
E torno in un giardino lontano, a rincorrere foglie, petali, rosa.



Carlo Stromboli











giovedì 8 ottobre 2015

"Never let me go", di Kazuo Ishiguro: le mie impressioni.

Poi c'è questo libro del 2005, "Never let me go" (versione italiana: "Non lasciarmi"), di Kazuo Ishiguro, scrittore giapponese impiantato in Inghilterra, che una volta finito di leggere in effetti non ti lascia più. Continuano a tornarti nella testa le immagini, le sensazioni, tutti i ricordi che la narratrice-protagonista, Kathy, riporta a distanza di molti anni, e la descrizione dettagliata delle scene, dei momenti, la sensazione tangibile di essere insieme a quei ragazzini che crescono nel mondo fantastico dell'istituto educativo Hailsham e che si trasferiscono, poi, ai Cottage. Una storia d'amicizia e d'amore all'insegna dei ricordi, che diventano ancora più importanti e fondamentali se i protagonisti sono dei cloni, creati in laboratorio allo scopo di donare gli organi e come supporto al progresso scientifico nel campo delle malattie incurabili.

È una storia in cui a farla da padrone è un destino ineluttabile. Ma è umano: anche quando tutto sembra inevitabilmente predestinato, l'uomo serba inconsciamente delle speranze, o magari si crea delle fantasie che gli rendano anche più spianata la strada.

La bellezza di questo libro, a mio avviso, risiede nei flashback così sapientemente dosati e curati, nei quali il lettore si immerge totalmente e diventa protagonista in prima persona. Le memorie diventano come mattoni posti su altri mattoni, tasselli legati ad altri tasselli, fino a creare un quadro esaustivo di che cosa sono state l'infanzia e l'adolescenza di Kathy, Ruth, Tommy e, insieme a loro, di tutti gli altri ragazzi accomunati dallo stesso crudele destino.
La dolcezza dei ricordi è disarmante: il lettore ne resta avvinghiato e affascinato, non c'è scampo alla forza di quelle parole che ti trascinano fino alla fine del romanzo con una potenza contro la quale non c'è resistenza che vinca.
Questa lettura è una lotta continua che non conosce sosta: si viene a conoscenza della vera natura - e quindi del destino - di questi giovani protagonisti quasi sin da subito, e quindi sin da subito si rimane implicati in un meccanismo di commozione, di rabbia e di impotenza, sebbene dall'altro lato ci siano anche queste dicerie, queste voci che circolano sin dai tempi di Hailsham e che si tramutano inevitabilmente in speranza, una speranza però vana, destinata al fallimento, creata dalla fragile fantasia di piccoli esseri che, a causa di un voluto "detto non detto", non possono comprendere appieno il significato delle loro esistenze, l'ineluttabilità del loro destino.

La potenza degli ultimi capitoli, poi, è devastante: tutti quei discorsi fatti negli anni, quegli scambi di opinione, quella spasmodica ma silenziosa ricerca di una via d'uscita, quel vitale desiderio di riuscire a ottenere anche solo un po' di tempo in più per amare, quella forte voglia di scoprire il "segreto" nascosto dietro all'Arte, tanto importante nel mondo di Hailsham, tutte quelle sensazioni che da sempre, in piccole ma importanti porzioni, hanno tenuto in vita la speranza di una salvezza, o, al massimo, di un "rinvio" delle donazioni, si rivelano fragili come castelli costruiti sulla sabbia. A confermarlo sarà un importante incontro con chi aveva realmente lottato per dimostrare alla scienza che anche loro, anche i cloni, hanno un'anima, attraverso un importantissimo progetto il cui fallimento porta alla chiusura definitiva di Hailsham. Non c'è via d'uscita a quello che la scienza ha voluto per loro, non esiste modo per fuggire dalla loro inevitabile, terribile sorte.

Eppure i nostri piccoli protagonisti, nonostante tutto, a Hailsham hanno potuto vivere, se non altro, un'infanzia felice e spensierata, che ha dato loro l'illusione di essere come tutti gli altri e di poter perfino sperare.

Un libro di una drammaticità disarmante. Ci sono stati diversi momenti, nel corso della lettura, in cui un groppone in gola non mi permetteva di continuare. Ishiguro ha creato un mondo fantastico in cui mi sono immersa in totale abbandono e concentrazione.

Solitamente non mi attraggono le letture distopiche o fantastiche, ma con Never let me go le cose sono andate diversamente. Lo comprai nel 2008 senza sapere che fosse un romanzo "fantastico" (non potevo capirlo da niente, la descrizione in quarta di copertina, chiaramente, non svela nulla) e solo per la voglia di leggere qualcosa in inglese, e già quella prima lettura mi regalò delle emozioni importanti. Oggi, a distanza di sette anni, lo rileggo ritrovandoci le stesse emozioni ma addirittura amplificate se vogliamo, forse anche grazie alla mia maggiore competenza nella lingua inglese rispetto a tanti anni fa, che mi ha permesso di assaporare meglio tutte le scene, gli episodi, i racconti, i non detti.

Essendo a conoscenza del fatto che il romanzo è stato anche trasposto sul grande schermo (2010, regia di Mark Romanek), ieri mi sono concessa la visione del film, ma le aspettative sono state deluse. Non c'è modo che il film possa essermi piaciuto più del libro. Anzi, mi sono anche un po' annoiata e, più che per altro, l'ho visto tutto per il piacere di notare le differenze o le analogie con il romanzo.
Be', si sa, trasporre un libro sullo schermo non dev'essere per niente un'impresa facile. Un sacco di scene devono essere tagliate o anche modificate dall'originale allo scopo di rimanere entro i limiti di una normale durata filmica. Sebbene il film si sia mantenuto abbastanza fedele alla maggior parte delle scene descritte nel libro, secondo me non se ne può dire all'altezza. Molte scene importanti, che nel mio immaginario di lettrice sono state addirittura indispensabili nel libro (come l'associazione della città di Norfolk con il posto dove vanno a finire le cose perdute nel tempo, diversi passaggi della storia dell'amicizia fra Ruth, Kathy e Tommy, anche lo stesso modo in cui Kathy viene a impadronirsi della musicassetta contenente il pezzo da cui prende titolo il libro, e tanti altri momenti) nel film erano inesistenti o portate verso tutt'altra direzione per necessità di tipo tecnico.
Inoltre il film in sé mi è sembrato privo di slancio, spento, troppo cupo e triste (la drammaticità della storia nel film è esasperata anche nella fotografia, nei colori, nei paesaggi, nei movimenti lenti). Il libro mi ha trasmesso una forza decisamente diversa, più vera e più reale.
Sinceramente, quando un libro mi piace così tanto non credo ci sia modo di trovare lo stesso piacere nella visione del film. I film tratti dai romanzi diventano spesso riduttivi e approssimativi. I libri, invece, contengono in sé un mondo intero che si nutre, inoltre, dell'insaziabile immaginazione dei lettori. 

Never let me go è qualcosa di speciale. Un grande capolavoro della letteratura inglese che merita tutto il tempo che prende.









Simona





lunedì 5 ottobre 2015

Thomas Kinkade, il Pittore della Luce.

Thomas Kinkade era un pittore statunitense cresciuto in California. Ci ha lasciato un'enorme collezione di meravigliosi dipinti a olio per poi scomparire, nel 2012, a soli 54 anni. Ma non definitivamente. Credo abbia lasciato una grande parte di sé nei suoi quadri, proprio come fanno tutti gli artisti che non scompaiono mai davvero, dal momento che la loro anima è impressa sulla tela di un quadro, fra le pagine di un libro o fra le melodie di una canzone.
Lo chiamavano "The Painter of Light" - il Pittore della Luce - e penso sia abbastanza evidente perché: dai suoi quadri emerge una luminosità straordinaria e paradisiaca, che sfuma i colori e dà al dipinto questa sensazione di evanescenza e idillio che, dopo averla provata, è difficile scrollarsi di dosso.


















Io personalmente l'ho conosciuto, ormai diverso tempo fa, trovando per caso sul web il dipinto che segue, raffigurante una strada di San Francisco. Mi ricordo vividamente la sensazione di non capire se fosse un quadro o una fotografia. Lì per lì pensai: "Forse è una fotografia su cui è stato applicato un effetto particolare". Ma poi, guardando meglio, decisi che si trattava di uno straordinario dipinto realizzato da un qualche pittore dotato di un meraviglioso Dono (non c'era scritto il nome dell'autore, quindi all'epoca rimasi all'oscuro dell'esistenza di questo grande talento, che, tra l'altro, ha ricevuto numerosi premi e ha anche collaborato con produttori di film di animazione per la realizzazione di fantastici sfondi). 




I dettagli dei suoi quadri sono troppo precisi e reali per non cadere, anche solo per un istante, nella tentazione di volersi immergere in quei paesaggi, in quelle città, in quelle strade così autentiche, in quegli scenari dipinti con così tanta maestria.








Simona



mercoledì 23 settembre 2015

Qualcosa è cambiato.

L'autunno torna con un po' di fresco sulle gambe. E te ne accorgi subito: qualcosa è cambiato. 
A volte il tempo cambia, si modifica, segue gli stati d'animo, balla insieme alle emozioni. Le foglie secche, le pioggerelle che rinfrescano l'aria, i colori caldi, i parchi infuocati, assumono un senso solo mentre accadono, mentre si manifestano in tutto il loro splendore. Però non ci sono nei tuoi sogni e, anzi, spariscono dietro ai se, ai perché, ai ma, ai pensieri intensi, alle aspettative, alle possibili prime impressioni, agli impatti, ai domani. Perché, in fondo, non sei la stessa dello scorso anno. Non sei la stessa neppure di due, quattro, otto anni fa.
Allora l'autunno torna mentre cambi, e così cambia anche lui. Si manifesta più lieve, si fa sentire di meno, non arriva impetuoso, non fa il solito rumore, non gli importa di impressionarti attraverso quadri, colori, fotografie. Si nasconde dietro alla scia di una lunga, calda e intensa estate. Un'estate come non se ne vedevano da tanto. 
E il vento, che risuona monotono dietro alle finestre chiuse, con quel fischio familiare che solo queste persiane mi sembra possano produrre, diventa di nuovo la cosa più preziosa, che riesce a farsi spazio persino fra i pensieri. Se potessi lo porterei via con me. Così, per sentirmi a casa.








Simona




domenica 20 settembre 2015

Inside Out: il nuovo film di animazione firmato Disney.

Chi lo dice che i film di animazione sono solo per bambini? Io non me ne perdo uno! Ieri sera la sala cinematografica era praticamente piena zeppa ed eravamo per la maggior parte adulti, altroché! :D




Inside Out, più di ogni altro film di animazione visto finora, mi ha letteralmente rapita! È un bel mix di risate, originalità, curiosità, suspense e commozione. Sì, commozione: sarò anche stata l'unica (non credo proprio), ma di tanto in tanto perdevo lacrimucce e stavo ben attenta a non farmi vedere ("Guardate quella, che piange per un cartone!").

Inside Out è una piccola genialata del regista Pete Docter. È una storia favolosa che "impersonifica" le emozioni, dando loro un volto e dei ruoli precisi, e le confina in una zona remota dell'anima, da dove agiscono per far sì che la vita di Riley - una ragazzina del Minnesota - sia quanto più felice possibile. La storia, in un modo molto originario, vuole cercare di spiegare chi ci sia dietro alle emozioni delle persone e perché queste siano felici o infelici. Ebbene, secondo il regista, a gestire la nostra felicità sono loro:








Queste, nello specifico, sono le emozioni di Riley. Certo, delle emozioni un po' pasticcione, c'è da dire, ma con un solo scopo che le accomuna proprio tutte: la felicità di Riley.

La piccola Riley
Per questo motivo, il quartier generale da dove tengono i comandi della sua vita non può che essere gestito, con il consenso di tutti, da Gioia. Lei è l'unica che sa sempre come fare a strappare un sorriso alla piccola Riley, sa sempre come rimettere a posto le cose quando le altre emozioni "combinano qualche guaio" e prendono il sopravvento, ha un ottimismo invidiabile, non si ferma di fronte a nessuna sconfitta e riesce sempre a trovare il modo per riportare la calma. È proprio grazie a lei, alla sua temperanza, alla sua perseveranza, se Riley può contare su un numero imprecisato di ricordi felicissimi!
Ma a un certo punto, in corrispondenza di un trasloco a San Francisco, la vita di Riley comincia a cambiare. Inside - ovvero nel mondo delle emozioni - si verifica un imprevisto che vede Gioia e Tristezza allontanarsi dal quartier generale per un breve periodo di tempo che sarà però cruciale, dal momento che i tre rimasti - Disgusto, Rabbia e Paura - perdono letteralmente il controllo della situazione. Vorrebbero tanto gestire Riley come riusciva a fare Gioia, ma le loro personalità forti vengono fuori e portano praticamente la ragazzina alla rovina.
Gioia e Tristezza con l'amico immaginario
Nel frattempo, Gioia e Tristezza, finite negli anfratti della personalità di Riley, cercheranno a tutti i costi di trovare la via per tornare indietro e riprendere in mano la vita della ragazzina, percorrendo un fantastico viaggio che le vede passare per il subconscio, incontrare l'amico immaginario di Riley (un elefantino fatto per metà di zucchero filato e che piange caramelle), passare per la sede dei sogni (immaginata come un'esilarante casa di produzione cinematografica, con tanto di registi, attori, camera men, locandine dei prossimi sogni in uscita), salire sul treno dei pensieri, che passa sempre e si ferma solo quando Riley si addormenta, cadere nel dimenticatoio, dove finiscono i ricordi rimossi nel tempo, e cercare di risalire in superficie, e molto, molto altro.

Nel quartier generale
Che dire delle cinque emozioni? Sono tutte fantastiche, ognuna con la propria dirompente personalità. Disgusto con le sue facce buffe, Rabbia che esplode per ogni nonnulla lanciando fuoco dalla testa, Paura che, chiaramente, ha il terrore di ogni cosa, Tristezza, sempre depressa e pigra all'ennesima potenza, e infine Gioia, che sembra una mamma che ha a cuore solo e soltanto la felicità della sua bambina e farà di tutto per far funzionare le cose e riportare l'ottimismo, nella vita di Riley come nel quartier generale.

Non dico una sciocchezza: ho iniziato a vederlo e dopo un istante era già finito! Mi sono divertita, mi sono commossa, ho riso molto, ho provato un vero piacere a stare seduta in quel sedile a guardare Inside Out, uno dei film di animazione più belli e originali di sempre! (Credo sia il mio preferito, finora).

Lo consiglio vivamente a tutti, a grandi e piccini. In questo post è scritto gran poco, ma vi assicuro che il film è molto di più: in ogni momento succede qualcosa di nuovo e originale, che vi lascerà a bocca aperta, vi divertirà, vi stupirà, vi renderà felici di essere al cinema!

Io voglio già rivederlo.







Simona





sabato 22 agosto 2015

Hanùl: collezione estate 2015 "Miss Summer" + ultime creazioni


Eccomi qui ad aggiornarvi sulle ultime creazioni di Hanùl




Con un po' di ritardo, vi presento finalmente l'ultima collezione!
Si chiama "Miss Summer" ed è ispirata agli straordinari anni '70
La collezione presenta articoli caratterizzati da colori caldi, 
da tratti forti che si imprimono nella mente, 
da figure floreali con contorni precisi e netti  
che danno l'esatta idea della manualità e della grande abilità 
che caratterizzano questo marchio,
dove la creatività e l'originalità
si accompagnano a un'impressionante precisione
e una ricercata cura dei dettagli.


Ecco qui alcune delle borse "Miss Summer" e, a seguire,
le parure abbinate, composte da collana, bracciale e orecchini.



Miss Carmela

Miss Sofia

Miss Amelia

Miss Luisa

Miss Rosa


 Ogni borsa Hanùl può essere accompagnata da un accessorio in pendant,
che può essere una collana, un bracciale o un paio di orecchini.
Eccone alcuni!















Volete vedere il video-trailer della Collezione?
Potrete ammirare le creazioni Hanùl indossate da una modella
bellissima, elegante e raffinata!
Basta cliccare su questo link:





Ovviamente Hanùl non si ferma proprio mai, 
e quindi, dopo aver lanciato la nuova collezione estiva,
ha realizzato molte altre creazioni nel corso dell'estate.
Non posso non condividerne alcune con voi,
 specialmente per il mio amore smisurato 
verso le cosiddette creazioni "Cartolina",
che ritraggono paesaggi e paesi lontani
che mi fanno venire, ogni volta, una voglia pazza di viaggiare!


 






Come si può non aver voglia di immergersi
in queste acque infuocate dal sole olandese?


Il mio personale amore per gli accessori "Cartolina"
non esclude, ovviamente, la bellezza delle altre fantasie.
Hanùl è anche altro, infatti: è fiori, romantiche gheishe,
patchwork, riproduzione dei grandi dipinti di tutti i tempi,
su borse, bijoux, portafogli,
ma anche scarpe, portachiavi, cover per cellulari...












Il tutto da scoprire sul sito ufficiale,
dove potrete vedere questo e MOLTO ALTRO!










Simona



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