Scritta scorrevole

"Go as far as you can see, when you get there, you'll be able to see further" (T. Carlyle)

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Insegnante di inglese appassionata di scrittura e di fotografia e profondamente innamorata degli animali. Questo blog è un ampio rifugio in cui condivide passioni, letture, riflessioni, novità sui suoi libri e molto altro. INSTAGRAM: @simona_giorgino (profilo autrice), @photosfromthewind (profilo fotografico).

domenica 16 gennaio 2011

L'ultimo raggio di sole

Precauzioni per l'uso: si consiglia la lettura combinata ad una flebo rianimante (vale a dire, non è esattamente uno di quei racconti... feliiiiiiciii :-D, che io, tra l'altro, vado preferendo di gran lunga!).
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Mi avvolge nelle lenzuola come fossi una figlia da accudire con rispetto e devozione. Si preoccupa che il mio corpo sia abbastanza coperto da non prendere freddo, per guarire presto, come se questo fosse possibile. Posa adagio un bicchiere d’acqua sul comodino, a fianco del mio letto, e mi dice: “Quando ne hai voglia, premi il bottone”. Quando mi parla, accompagna le sue parole sempre con un sorriso. La sua voce è dolce, se fosse miele vorrei non finire più di mangiarne. Vorrei sentire la sua voce sempre, di mattina, di notte, negli spasmi della malattia, in quell’ora del pomeriggio in cui entra dalla finestra l’ultimo raggio di sole prima che si sposti dietro l’edificio, oltre il quale muore, e io non posso mai vederlo tramontare. Non mi posso alzare più da questo letto. Chiudo gli occhi sperando di dormire, ma mi pare che neanche questo, più, mi sia concesso. La mia testa è un vociare continuo. Non riesco a dormire, soffro d’insonnia. Fino a poco tempo fa, la notte, quando Fabio non era di turno, urlavo che rischiavo di svegliare i miei vicini di stanza. Penso che, forse, se ci fosse stato Fabio non avrei mai urlato così, perché avrei provato vergogna di mettermi a gridare come una bambina, facendolo accorrere impaurito come se stessi morendo. Invece, erano solo i capricci di una povera malata che si sentiva sola, triste, avvilita, moribonda. Ora, ho la voce così debole che di gridare non sono più capace. La porta è sempre aperta, ci sono tanti infermieri qui vicino, ma ho di continuo paura che si dimentichino di me e tengo quanto più stretto possibile nella mano questo bottoncino da premere nel caso in cui avessi bisogno di qualcosa. È stato Fabio ad adagiarmelo nel palmo, perché non sono più capace neanche di muovermi, i miei muscoli si sono tutti indeboliti, non c’è più molta vita che scorra nel mio corpo. Adagiandomi il bottoncino nel palmo della mano, ho sentito il calore della sua pelle contro la mia. Ho sentito le sue dita morbide e in quel momento era come se il mio corpo avesse ripreso vita, perché mi sentivo carica, accaldata, appassionata. Avrei voluto dirlo a Fabio, avrei voluto abbracciarlo, baciarlo, sentirmi sua, sentirmi viva, e invece potevo solo starlo a guardare mentre sentivo la sua pelle contro la mia.
Stamattina Fabio non c’è. Doveva venire alle nove, come di consueto, per somministrarmi la solita flebo. Al posto suo c’è un’infermiera nuova. Ho paura che Fabio non venga più, ma non ho più forza, non ho più voce per chiederle notizie di lui. Non posso fare altro che guardarla imperterrita, muta, immobile, implorante, mentre mi adagia la flebo al braccio. La guardo come se lei potesse capire attraverso i miei occhi quello che vorrei chiederle. La sento quasi dire: “Tranquilla, lui sarà qui a breve”, ma mi rendo conto che è solo la mia immaginazione che vede muovere le sue labbra, con la presunzione che gli altri possano e debbano capire quello che io non sono più capace di dire. Ma in verità lei non parla, non dice una parola, e dopo che ha finito di adagiare la flebo esce dalla stanza senza neanche guardarmi in faccia. Fabio, invece, mi avrebbe sorriso. Fabio mi avrebbe anche detto qualche parola, forse un saluto, e lo avrebbe fatto con la sua voce dolce di sempre, con la sua voce rassicurante. Per Fabio io non sono una semplice malata che sta per morire, ma sono una persona, piuttosto, che ancora vive e, per un essere che vive, una parola, una qualsiasi parola, non è mai sprecata.
Questo pomeriggio è vuoto, malinconico, grigio. Dalla finestra riesco a vedere le nuvole che coprono il cielo, che non lasciano spazio neanche a quell’unico raggio di sole che a quest’ora, di solito, corre a nascondermi la sua morte. Eppure, lo so che lui c’è, con il suo ultimo raggio, dietro le nuvole, che tramonta anche oggi senza farsi vedere. Io non l’ho più visto morire, il sole, da quando sono qui, e lui, oggi, non vede morire me. Tra queste bianche lenzuola, profumate di pulito, cambiate giusto ieri, oggi lascio un sorriso. Anche una parola vorrei lasciarci, ma ho la voce debole, troppo debole, che non riesco neanche ad emettere un gemito. Forse, come un fugace sibilo di vento, se fossi capace lascerei solo un flebile ti amo, perché non è mai troppo tardi, mai è troppo tardi, per amare.

S. Giorgino, 21/02/2010

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