Per la sezione "Invia il tuo racconto!":
Ventisette, di Carlo Stromboli
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La facciata orientale del carcere di Poggioreale presenta ventisette finestre, che, a intervalli regolari, occupano l’intera lunghezza del muro.
Da sei anni sono in Italia e ogni mattina, all’alba, sono nel centro direzionale di Napoli. Non so bene cosa vuol dire direzionale.
“Buongiorno.”
In italiano non conosco parole difficili. In realtà neanche nella lingua del mio paese di origine, il Libano. Ho sempre pensato che le parole difficili non fossero utili a rendere la vita più semplice, più bella, più serena. Alcune in realtà le conosco, ma cerco di non usarle. Non danno il pane.
“Buongiorno signora.”
Sono arrivato qui in Italia a venticinque anni. Da solo. Nel nostro paese ne sentivamo parlare come fosse l’America. Possibilità, tranquillità, sole. Sicurezza, pace.
“Ciao. Buongiorno.”
Ho scoperto che non è proprio così. Sì, si riesce a vivere senza pensare sempre alla possibilità che scoppi una guerra. Senza la paura di non essere liberi. Non è però facile sistemarsi. Sperare di rivedere le persone della propria vita, del proprio cuore.
Mi piace ascoltare musica.
“Buona domenica, signora. Grazie.”
Mi ricordo il giardino di peschi, quello in cui per la prima volta ho baciato Joele. La mia donna. Che non vedo da sei anni, ma a cui dedico i miei sforzi. Le mie speranze.
“Ciao bello. Grazie.”
Ho solo lei ora nel mio paese. Mio padre è venuto a mancare, così dicono in Italia, è morto due anni fa.
“Salve, grazie. Buon appetito.”
Era un uomo severo, di vecchio stile, qui dicono stampo mi sa, ma non ne sono sicuro.
Rigido. Aveva un’espressione dura sul viso. Ha sempre lavorato, con forza, con fantasia.
Aveva una piccola fabbrica di bicchieri. Vendeva e produceva solo bicchieri di plastica e carta. Insieme ad altri oggetti come piatti e posate, sempre di carta e plastica. Solo questo. Ma a quel tempo fu uno dei primi a produrli in Libano. Anche lui a modo suo ha lottato per l’indipendenza. Non dovevano più necessariamente arrivare dall’Europa. Necessariamente è una parola lunga, ma non difficile.
“Ciao, grazie.”
Quand’ero piccolo mi ricordo che in primavera all’imbrunire, poco prima del tramonto, ci mettevamo tutti i bambini nel giardino della nostra casa. Tutti i cugini.
Aspettavamo un soffio di vento e poi, con i bicchieri che eravamo riusciti a rubare nel negozio di papà cercavamo di prendere le foglie che volavano. Che cadevano dalle piante. I petali. Quelli rosa. Quelli delle piante di pesco.
“Buongiorno. Grazie.”
Qui in Italia mi piacciono le persone. Quasi tutte.
Qui a Napoli mi piacciono le persone.
“Grazie.”
Qui al centro direzionale mi piacciono le persone.
Mi piace osservarle.
“Buonasera signora.”
Mi piace la loro sicurezza. La loro timidezza.
Il loro modo di voler coprire sé stesse e vestire di altro. La sincerità nei loro occhi.
Il lavoro loro ce l’hanno. Mi piacerebbe lavorare.
Mi piace l’odore di via Torino, mi ricorda la strada in cui sono nato.
Mi piacciono i mille negozi di pizza e di cibo. Mangiare è una cosa bella. Molto.
“Grazie. Buonasera.”
Quel ragazzo di quarant'anni che vedo ogni mattina, con la barba incolta e il viso scuro. Naso un po’ sporgente. Alto. Con la giacca nera sul maglione marrone. Maglione che sopporta il caldo e il freddo del suo petto. Le sue gambe incrociate che terminano in scarpe per la ginnastica un po’ consumate. I denti gialli. La mano destra sempre in tensione. Lo sguardo sognante, a volte stanco. Vivo. Occhi sognanti. A volte stanchi. Occhi vivi.
“Ciao. Grazie.”
Come sono cambiato in questi anni. Non sembro quasi più io.
“Buonasera. Grazie.”
Mi piace la statua di Garibaldi. So chi era. Penso che la vita sia piena di sorprese.
Prima o poi tornerò da Joele. Guarderò il mare. Toccherò la sua sciarpa.
Devo aspettare solo altri due anni.
“Grazie. Buonasera.”
Una volta sono entrato in una di queste torri. Una di quelle tutte finestre. Che riflettono la luce del sole. Ho preso l’ascensore e sono salito in alto. Mi piace l’ascensore, mi ricorda il negozio di mio padre. Erano due piani, con l’ascensore per le merci. A volte mi nascondevo lì.
“Buonasera, grazie.”
Sono salito a un piano alto.
Oh, Cristo. Che bella vista.
Ho visto il mare, persone che camminano, il treno. Anzi due, uno fermo, uno in movimento. Capri. Cupole di chiese. Ce ne sono tante a Napoli. Garibaldi. Lui però ci ho messo un po’ per vederlo.
“Grazie signora. Buonasera.”
Credo che i colori, gli odori, il gusto, la sensazione sulle dita quando si tocca una panchina, una colonna, un bicchiere, siano i sensi. Della vita.
“Ciao, grazie.”
Quando viene l’imbrunire, prima del tramonto, e una moneta cade nel bicchiere della mia mano destra il rumore che arriva alle mie orecchie è quello di quando un petalo vola, e poi cade. Io ringrazio, ma la mia mente è in un giardino lontano, a rincorrere foglie, petali, rosa.
“Grazie. Buonasera.”
Due anni e mio fratello uscirà del carcere di Poggioreale. Lo hanno messo dentro, così dicono qui, perché ha rubato in Libano per trovare i soldi del viaggio per me e per lui.
“Buonasera. Grazie.”
Ogni sera, al tramonto, sono nel centro direzionale di Napoli. Non so bene cosa vuol dire direzionale.
La facciata occidentale del carcere di Poggioreale presenta ventisette finestre, che, a intervalli regolari, occupano l’intera lunghezza del muro.
Al tramonto il rumore che arriva alle mie orecchie è quello di quando un petalo vola, e poi cade.
E torno in un giardino lontano, a rincorrere foglie, petali, rosa.
Carlo Stromboli
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