Eugenio Scopece viveva in un piccolo centro dell’entroterra foggiano. Era un giovane robusto, aveva un viso un po’ arcigno e, forse per queste sue caratteristiche, il Podestà del paese gli aveva affidato la custodia del piccolo carcere mandamentale dove venivano stazionati furfantelli o persone in attesa di giudizio per piccoli reati. Ma, ad onta del suo aspetto duro, aveva un cuore d’oro e si sforzava sempre di rendere meno pesante la permanenza ai detenuti che soggiornavano nel “suo” carcere intrattenendo con loro rapporti di amicizia e di cordialità.
Nei piccoli paesi era d’uso identificare le persone con un nomignolo in base all’attività che svolgevano, a lui toccò quello di “carceriere” che, seppure poco gradito, conservò per tutta la vita.
Il complesso che gli era stato affidato era costituito da un piano terra dove era collocato il suo ufficio e tre celle per i detenuti, mentre al primo piano erano sistemate una grande cucina, la camera da letto, il bagno e un ripostiglio.
Lo stipendio, anche se non eccessivo, era sufficiente per le sue modeste esigenze e il “posto fisso” gli permetteva finalmente di pensare a crearsi una famiglia.
Allora cominciò a guardarsi attorno e posò gli occhi su una ragazzotta che, per le sue caratteristiche (bionda, con le trecce e tante lentiggini), gli sembrò la più adatta al suo progetto di vita. Ma la ragazza, figlia di un benestante terriero, sembrava lontana mille miglia dai suoi pensieri che, certamente, avrebbero potuto tradursi in una possibile illusione.
Dopotutto, pensava, l’illusione non è forse la speranza che ci sia sempre una possibilità? E allora perché non tentare?
Preso il coraggio a due mani, una sera si presentò ai genitori della giovane, chiedendone la mano. E mentre il padre si intratteneva con lui parlando del più e del meno, come il tempo e i lavori della stagione, la madre in un’altra stanza informava la figlia, Maria Rosa per la precisione, della richiesta di Eugenio.
La giovane si dichiarò disponibile e le nozze vennero fissate dopo il raccolto e, come d’uso, venne stilata la “lista dei panni” (il corredo) che toccava portare alla sposa e concordata la dote consistente in due ettari di terra e tre case al piano terra.
Una volta sposati, i coniugi andarono ad abitare nell’appartamento al primo piano del carcere, mentre le tre case e la terra furono date in affitto, il cui ricavato contribuì ad accrescere le entrate della famiglia.
Maria Rosa aveva il senso del risparmio ed era attenta a qualsiasi iniziativa che potesse migliorare la loro posizione economica, quindi suggerì al marito, qualora il Podestà fosse stato d’accordo, che fosse lei a cucinare per i detenuti piuttosto che far venire i pasti dall’esterno. La sua proposta venne accettata e così la loro dispensa, da quel momento, si trovò piena di ogni bene di Dio e anche i detenuti ne trassero giovamento da una cucina casalinga e più genuina.
La loro unione venne finalmente allietata anche dalla nascita di un bel bambino che chiamarono Cecchino, diminutivo di Francesco.
Ormai erano trascorsi sette anni dal giorno del loro matrimonio e l'inverno si preannunciava già abbastanza rigido sin dalla prima metà di Dicembre. Eugenio pensò bene di rifornirsi di carbone per la cucina e di legna per la stufa e fu proprio in quel periodo che le porte del carcere si spalancarono per accogliere un giovane ladruncolo.
Come era sua abitudine, Eugenio gli fece visita nella cella chiedendogli se avesse bisogno di qualcosa, ma il ragazzo, perché di un ragazzo appena diciottenne si trattava, invece di rispondere scoppiò in un pianto dirotto. Dopo essersi calmato cominciò a parlare:
«Mi chiamo Andrea Sardella, e ho sposato appena da due giorni la mia Carolina, con la quale ho fatto la “fuitìna”, e stamattina desideravo regalarle qualcosa di buono ma in tasca non avevo un soldo così pensai di rubare una stecca di cioccolato al supermercato, ma sono stato scoperto, denunciato e arrestato. Ora sono davvero pentito per quello stupido gesto e giuro che mai più mi farò tentare da pensieri cattivi.»
Eugenio cercò di calmarlo assicurandogli che il pretore presto avrebbe esaminato bonariamente la sua posizione e che per Natale sarebbe tornato a casa. Purtroppo il caso volle che il pretore fosse in ferie in quel periodo, per cui il fermo del ragazzo fu prolungato di una settimana.
Arrivò la vigilia di Natale, la notte sarebbe nato Gesù Bambino ed Eugenio il “carceriere” anziché prepararsi a vivere la solennità del momento nella gioia con la sua famiglia, si sentiva profondamente triste e turbato, tanto che ne parlò con Maria Rosa.
«Ascoltami, il buon Dio ci ha dato tante cose ma che senso ha averle se non possiamo condividerle con chi ne ha più bisogno di noi? Io provo tanta pena per quel ragazzo che è in prigione e che sarà costretto a vivere il Natale da solo e lontano dalla sua sposina per cui avrei un progetto, ma desidero la tua approvazione e collaborazione prima di metterlo in atto. Tuttavia ti confesso che la cosa non mi lascia del tutto tranquillo.»
La moglie, che ormai conosceva bene la bontà d’animo del marito, intuendo che doveva trattarsi di qualcosa di speciale e intrigata dalle sue confidenze, lo incoraggiò a parlare dicendogli:
«Non lasciare mai che i tuoi progetti restino solo buoni propositi. Se nelle tue cose non arrivi fino in fondo allora non vale la pena neppure di cominciare.»
«Ma è una scelta difficile e rischiosa, e ho paura per le eventuali conseguenze» rispose lui.
«Nella vita c’è sempre una scelta…» riprese la moglie, «ma qualche volta è più facile pensare che non ci sia. Dunque, animo, e non aver paura perché non c’è da aver paura se non della paura stessa. Ogni giorno il Signore ci offre due occasioni: possiamo scegliere di far del bene o restare indifferenti.»
Fu così che, spronato e incoraggiato da quelle parole, Eugenio espose alla moglie il suo piano e si organizzarono per metterlo in atto e portarlo a buon fine.
Il ragazzo venne scarcerato il 29 Dicembre e, dopo una ventina di giorni partì per gli Stati Uniti raggiungendo uno zio che faceva il cuoco nella villa di una vecchia signora inglese e di lui non si seppe più nulla nel paese.
Intanto la vita di Eugenio e Maria Rosa continuava a scorrere sui binari della normalità, fino a quando un avvenimento aveva turbato la loro quotidianità: lo stato di salute del figlio Cecchino che fu costretto a letto perché non riusciva più a camminare. Dapprima si era pensato a una semplice infiammazione della gamba curabile con i soliti unguenti e le solite pomate, poi, visti gli scarsi risultati, si decisero a interpellare uno specialista delle ossa. Da quel momento per loro iniziò un vero calvario. Per sopperire al costo elevato dei medicinali, delle rette ospedaliere, degli onorari agli specialisti e degli alberghi furono costretti a vendere prima la terra e poi due delle tre case che la moglie aveva portato in dote ma i loro sacrifici non sortirono alcun effetto positivo. Il ragazzo, colpito da un’osteomielite ossea, dopo circa due anni di sofferenze, cessò di vivere.
Trattandosi dell’unico figlio per i due genitori fu un colpo tremendo che li segnò profondamente nel corpo e nello spirito, tanto che Maria Rosa a un certo punto cadde in deliquio e dopo qualche anno anch’essa morì.
Rimasto solo e costretto a vivere nell’unica casa che gli era rimasta, Eugenio, ormai vecchio, trascorreva le sue giornate in un continuo dormiveglia, una specie di coma durante il quale riviveva i ricordi del suo passato. Godeva delle attenzioni e della carità dei vicini che lo aiutavano nella pulizia personale e gli cucinavano qualcosa da mangiare mentre lui, cosciente, aspettava con serenità la sua ora…
Mancava qualche giorno a Natale e fu proprio in tale occasione che Eugenio ricevette la visita di un attempato signore con suo figlio.
«Buongiorno signor Eugenio, perché lei è il signor Eugenio Scopece,vero?»
«Sì, sono Eugenio Scopece, e lei chi è?»
«Io sono Andrea Sardella e questi è mio figlio. Si ricorda di me?»
«Andrea Sardella! Ma certo che mi ricordo di te, figliolo. Vieni qui e fatti abbracciare!»
I due si strinsero in un affettuoso abbraccio, poi Eugenio continuò: «Vedi, come il maestro rammenta il cognome di tutti i suoi alunni, io ricordo perfettamente quelli di tutti gli ospiti che ho avuto nel “mio” carcere. Ma ti prego, prendi una sedia e siediti vicino a me. Dimmi: come mai ti trovi in Italia e perché sei venuto a trovarmi ?»
«Durante tutta la mia vita non ho fatto altro che pregare il buon Dio che mi concedesse di tornare un giorno in Italia, rivederla ed esprimerle la mia gratitudine e la mia riconoscenza per quello che lei ha fatto per me. Il suo è stato un gesto umanitario bello e commovente, qualcosa che mi ha segnato per sempre e che non potrò mai dimenticare. In famiglia talvolta accennavamo a quell’episodio senza, peraltro, entrare nei particolari. Ora vorrei che fosse lei a raccontare a mio figlio tutto quello che successe quella famosa notte di Natale.
«Oh, sì… quella famosa notte di Natale…»
Eugenio si schiarì la voce e, rivolgendosi al giovane, cominciò il suo racconto:
«Ora posso parlare liberamente perché non ho più nulla da temere. Vedi, tuo padre, a quell’epoca, aveva circa diciotto anni, era soltanto un ragazzo impaurito per quello che gli era successo e addolorato per aver dovuto lasciare sola la moglie che aveva appena sposato. Il pensiero che lui avrebbe dovuto passare la vigilia di Natale in carcere da solo mentre tutti fuori festeggiavano la nascita del Bambino, mi rendeva triste e angosciato. Così mi venne un’idea balzana e rischiosa perché, se qualcosa fosse andata storta, avrei perso certamente il posto di lavoro. Ne parlai con mia moglie e, insieme, decidemmo quello che allora ci sembrò più giusto e umano fare, e cioè invitare a casa nostra la giovane sposina perché trascorresse la notte di Natale e il giorno successivo con noi e con tuo padre. Sì, con tuo padre al quale aprii la porta della cella facendolo accomodare alla nostra tavola vicino alla sua sposa. Dopo la cena cedemmo loro la nostra camera da letto e lasciammo che i due giovani assaporassero fino in fondo ogni momento della loro felicità. Tutto filò liscio e qualche giorno dopo tuo padre lasciò il carcere con il fermo proposito di non tornarci più.»
Eugenio tacque e Andrea, commosso più che mai, abbracciò il vecchio promettendogli che in qualche modo, avendone la possibilità, avrebbe provveduto a lui.
Il giorno dopo si recò dal Sindaco chiedendogli se era possibile sistemare il vecchio carceriere in una struttura per anziani dichiarandosi non solo disposto ad accollarsi personalmente qualsiasi spesa ma anche a offrire un congruo contributo per lo sviluppo della struttura stessa sostenendo che il vecchio, dopo i suoi trascorsi, non meritasse di trascorrere il Natale in solitudine ma viverlo in compagnia come ogni buon cristiano.
Il Sindaco, commosso da quella calorosa partecipazione ma allettato anche dall’offerta, prese il telefono e chiamò la Direttrice della Casa Opus Dei.
«Sorella, nella sua Casa ci sarebbe posto per un vecchio indigente?»
«Mi spiace, Signor Sindaco, ma attualmente abbiamo tutte le stanze occupate.»
«Ma non ci sarebbe una più grande delle altre in cui sistemare provvisoriamente un altro lettino? Sa, ci terrei in modo particolare! Insomma è un favore personale che le sto chiedendo.»
«Va bene, allora lo faccia venire domani e cercheremo di sistemarlo.»
Fu così che Eugenio, il vecchio “carceriere”, lasciò la sua casa per trasferirsi in carrozzella alla Opus Dei proprio il giorno della vigilia di Natale.
Dopo la ricca e abbondante cena, alla fine della quale bevve anche dello spumante offerto dalle Dame della Carità, partecipò con gli altri ospiti alla piccola processione per la deposizione del Bambino Gesù nella mangiatoia del presepe allestito nella chiesetta della Casa e infine, stanco ma contento, si ritirò nella sua cameretta.
Prima di addormentarsi gli tornò in mente la famosa notte di Natale di tanti anni fa quando, mettendo a rischio il suo stesso avvenire, era riuscito a dare un poco di felicità a un giovane ragazzo e alla sua sposina. Capì che la buona azione, per volontà divina, gli era stata ricambiata e ringraziò il Signore che aveva voluto ricompensarlo con la pace e la serenità per il tempo che gli restava ancora da vivere.
Vincenzo Lumenti
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