Ai tempi dell'Università, specialmente negli anni della laurea triennale, quando studiavo arabo ed ero completamente rapita dal fascino del Medio Oriente, amavo immergermi in letture che mi trasmettessero il sapore di quei posti lontani. Avevo nel cassetto il sogno di fare un viaggio nel mondo arabo, immaginavo di poter andare a Damasco, in Egitto, o magari in Marocco.
Fu così che un giorno mi imbattei in questo racconto. Ero alla ricerca di storie di viaggi, racconti di esperienze vissute in qualche posto lontano ed esotico. Avevo voglia di leggere le testimonianze di chi era partito, di chi aveva intrapreso uno di quei lunghi viaggi che ti cambiano la vita o da cui non vorresti più tornare. Avevo voglia di lasciarmi trasportare lontano e di sognare a occhi aperti.
Leonardo Soresi, con il suo racconto "Il ragazzo che non voleva viaggiare", riuscì a fare tutto questo.
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IL RAGAZZO CHE NON VOLEVA VIAGGIARE
di Leonardo Soresi
Un lento gocciolio d’acqua si stacca silenzioso dalla tunica di cotone di un uomo, tracciando una scia scura sulla sabbia gialla. Normalmente quella goccia non attirerebbe la mia attenzione, ma quell’uomo sono io e la sabbia su cui cammino è quella dell’erg El Rhoual, un oceano di dune nel Sahara marocchino. Mi sono accorto troppo tardi di un piccolo foro nella guerba, l’otre in pelle di capra che porto a tracolla e ora sono rimasto senz’acqua: un bel guaio considerando che sono a oltre 200 km dai primi segni di civiltà.
Sono completamente solo: a farmi compagnia è rimasto il mio vecchio zaino, che mio padre mi aveva regalato per il diciottesimo compleanno. Povero papà… mi vedeva sempre chiuso in casa, chino sui libri: aveva paura mi dimenticassi di vivere la giovinezza. Nello zaino aveva messo anche un biglietto InterRail: era tutto quello che poteva permettersi, ma era molto più di quanto servisse per cambiarmi la vita. Mi viene da sorridere ripensando alla mia delusione quando avevo aperto il pacco: sapeva che desideravo tanto un nuovo computer! Come aveva potuto pensare che mi interessasse viaggiare su un sedile di treno, sporco e puzzolente come un barbone? Io non volevo viaggiare. Volevo diplomarmi con il massimo dei voti, iscrivermi alla Bocconi e diventare un manager ricco e invidiato. E lasciare quel buco di paese in cui le ragazze non avevano occhi che per teppistelli su motorini rumorosi. Quel primo viaggio… che tenerezza ripensarci adesso, disteso sulla calda sabbia del deserto!
Allora credevo che viaggiare non fosse altro che visitare i musei indicati nelle guide. Quell’esperienza mi aveva insegnato che in un viaggio si scopriva ben altro, come gli occhi verdi di una ragazza dai capelli rossi che sedeva in fondo ad un bistrot parigino, triste, dopo che un ragazzo si era alzato dal suo tavolo e, senza salutarla, se n’era andato. O come quel ragazzo londinese, riverso in una pozza del suo stesso vomito, che aveva cercato una fuga disperata in una siringa. Ma anche il grande mare oceano che al tramonto inghiottiva il sole al largo delle isole Aran.
In quel viaggio imparai a concedermi il tempo per conoscere le persone, scoprendo che sono infinite e inaspettate le storie che si celano dietro ogni uomo. Tornato a casa, niente era più come prima: i miei amati libri ora mi sembravano incompleti, aridi, perché pretendevano di raccogliere in parole e formule tutto quello che c’era là fuori, che senza sosta nasceva e moriva, cresceva e sfioriva, lasciando dietro di sé niente altro che orme sulla sabbia che presto il mare del tempo avrebbe cancellato.
Il Khamsin riprende a soffiare dolcemente e mi porta alle narici l’odore delle distese sabbiose. Chiudo gli occhi e ripenso al primo incontro con il deserto, quasi una rivelazione, nel Fezzan libico. Quella notte mi ero allontanato dai fuochi del bivacco per vedere meglio l’immensa notte africana, pazza di stelle, che fa brillare gli occhi di chi si ferma a guardarla. Ad un tratto avevo avvertito una vertigine, quel “battesimo della solitudine” di cui parlano le guide tuareg: avevo sentito il mio spirito espandersi all’infinito verso quell’immensità deserta, avventurandosi nelle profondità della notte. Era l’incontro con qualcosa di più grande, forse Dio, forse l’anima della terra. Come essere senza peso, trasportati via lontano da un alito di vento. Come rimanere sospesi oltre l’orlo di un precipizio per sempre. Nessuna droga poteva dare una sensazione del genere.
Da quel giorno erano iniziate le mie peregrinazioni sahariane: Murzuq, Tassili, Acacus, Tanezrouft, Tenerè. Per gli altri erano solo nomi dati ad un immenso Sahara che credevano tutto uguale, mentre per me erano diventati luoghi amici che mi avevano impregnato di amore per la terra e per gli uomini che la abitano.
Ma adesso sono arrivato alla fine della strada e ben presto diventerò parte di questa sabbia di cui ormai porto il colore e l’odore. Che senso ha avuto il mio viaggiare? Non riesco a provare paura, ma solo rimpianto per i luoghi che non riuscirò a vedere. Ho sempre saputo che in queste spedizioni africane poteva capitarmi l’imprevisto e morire… ma la morte non è un prezzo abbastanza alto per rinunciare a tutta la bellezza del mondo. Ho imparato che non bisogna diventare schiavi della paura, rinchiudendosi a doppia mandata dietro pesanti porte blindate, in case sicure in cui la vita ha cessato però di abitare. No, meglio morire ma per fortuna anche vivere. Perché vivere è un viaggio senza mappa né bussola, in cui solo la paura e la prudenza ti fanno smarrire.
Chi torna da un lungo viaggio si stupisce nel vedere gli amici d’infanzia, invecchiati e ingrigiti, soffocati da matrimoni senza slanci, da occupazioni che non amano. Da giorni tutti uguali passati ad annegare il malessere, chi con un’amante, chi davanti ad un televisore. Da scelte prudenti e sicure che non lasciano mai lo spazio per inseguire un sogno che fa battere il cuore. Chi viaggia torna invece con qualche ruga e qualche capello grigio in più, ma nei suoi occhi continua a brillare la scintilla dei vent’anni. Gli altri guidano auto sempre più grandi in orizzonti sempre più ristretti; lui si sposta a piedi, ma il mondo è diventato la sua casa. Gli altri ricorrono a chirurghi estetici e diete miracolose, tutti preoccupati di aggiungere anni alla vita; lui, viaggiando, aggiunge vita agli anni che gli sono stati dati.
Sono felice e orgoglioso della vita che ho scelto: mi alzo e decido di camminare fino a cadere stremato per terra, non per cercare un’improbabile salvezza in mezzo al mare di sabbia, ma per gridare al vento che la mia vita altro non è stata che un voler guardare cosa c’è al di là dell’orizzonte.
Mi incammino lentamente su su per il crinale della duna. Arrivato in cima mi fermo a guardare il panorama disegnato dai cavalloni di sabbia. Il cuore mi si apre d’amore per il mondo. Poi guardo in basso per iniziare la discesa e la vedo: una semplice, piccola pozza d’acqua, una guelta sahariana, uno di quei miracoli che chi non ha attraversato il deserto non sa apprezzare. Mi siedo e mi metto a ridere. Se qualcuno mi vedesse ora, seduto a gambe incrociate mentre rido nel silenzio degli spazi infiniti, penserebbe che sono pazzo. Se guardasse l’acqua della guelta vedrebbe invece riflessa l’immagine di un ragazzo che non voleva viaggiare, diventato un uomo che viaggia tra la sabbia e le stelle, rimanendo ragazzo.
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Simona
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