Poi c'è questo libro del 2005, "Never let me go" (versione italiana: "Non lasciarmi"), di Kazuo Ishiguro, scrittore giapponese impiantato in Inghilterra, che una volta finito di leggere in effetti non ti lascia più. Continuano a tornarti nella testa le immagini, le sensazioni, tutti i ricordi che la narratrice-protagonista, Kathy, riporta a distanza di molti anni, e la descrizione dettagliata delle scene, dei momenti, la sensazione tangibile di essere insieme a quei ragazzini che crescono nel mondo fantastico dell'istituto educativo Hailsham e che si trasferiscono, poi, ai Cottage. Una storia d'amicizia e d'amore all'insegna dei ricordi, che diventano ancora più importanti e fondamentali se i protagonisti sono dei cloni, creati in laboratorio allo scopo di donare gli organi e come supporto al progresso scientifico nel campo delle malattie incurabili.
È una storia in cui a farla da padrone è un destino ineluttabile. Ma è umano: anche quando tutto sembra inevitabilmente predestinato, l'uomo serba inconsciamente delle speranze, o magari si crea delle fantasie che gli rendano anche più spianata la strada.
La bellezza di questo libro, a mio avviso, risiede nei flashback così sapientemente dosati e curati, nei quali il lettore si immerge totalmente e diventa protagonista in prima persona. Le memorie diventano come mattoni posti su altri mattoni, tasselli legati ad altri tasselli, fino a creare un quadro esaustivo di che cosa sono state l'infanzia e l'adolescenza di Kathy, Ruth, Tommy e, insieme a loro, di tutti gli altri ragazzi accomunati dallo stesso crudele destino.
La dolcezza dei ricordi è disarmante: il lettore ne resta avvinghiato e affascinato, non c'è scampo alla forza di quelle parole che ti trascinano fino alla fine del romanzo con una potenza contro la quale non c'è resistenza che vinca.
Questa lettura è una lotta continua che non conosce sosta: si viene a conoscenza della vera natura - e quindi del destino - di questi giovani protagonisti quasi sin da subito, e quindi sin da subito si rimane implicati in un meccanismo di commozione, di rabbia e di impotenza, sebbene dall'altro lato ci siano anche queste dicerie, queste voci che circolano sin dai tempi di Hailsham e che si tramutano inevitabilmente in speranza, una speranza però vana, destinata al fallimento, creata dalla fragile fantasia di piccoli esseri che, a causa di un voluto "detto non detto", non possono comprendere appieno il significato delle loro esistenze, l'ineluttabilità del loro destino.
La potenza degli ultimi capitoli, poi, è devastante: tutti quei discorsi fatti negli anni, quegli scambi di opinione, quella spasmodica ma silenziosa ricerca di una via d'uscita, quel vitale desiderio di riuscire a ottenere anche solo un po' di tempo in più per amare, quella forte voglia di scoprire il "segreto" nascosto dietro all'Arte, tanto importante nel mondo di Hailsham, tutte quelle sensazioni che da sempre, in piccole ma importanti porzioni, hanno tenuto in vita la speranza di una salvezza, o, al massimo, di un "rinvio" delle donazioni, si rivelano fragili come castelli costruiti sulla sabbia. A confermarlo sarà un importante incontro con chi aveva realmente lottato per dimostrare alla scienza che anche loro, anche i cloni, hanno un'anima, attraverso un importantissimo progetto il cui fallimento porta alla chiusura definitiva di Hailsham. Non c'è via d'uscita a quello che la scienza ha voluto per loro, non esiste modo per fuggire dalla loro inevitabile, terribile sorte.
Eppure i nostri piccoli protagonisti, nonostante tutto, a Hailsham hanno potuto vivere, se non altro, un'infanzia felice e spensierata, che ha dato loro l'illusione di essere come tutti gli altri e di poter perfino sperare.
Un libro di una drammaticità disarmante. Ci sono stati diversi momenti, nel corso della lettura, in cui un groppone in gola non mi permetteva di continuare. Ishiguro ha creato un mondo fantastico in cui mi sono immersa in totale abbandono e concentrazione.
Solitamente non mi attraggono le letture distopiche o fantastiche, ma con Never let me go le cose sono andate diversamente. Lo comprai nel 2008 senza sapere che fosse un romanzo "fantastico" (non potevo capirlo da niente, la descrizione in quarta di copertina, chiaramente, non svela nulla) e solo per la voglia di leggere qualcosa in inglese, e già quella prima lettura mi regalò delle emozioni importanti. Oggi, a distanza di sette anni, lo rileggo ritrovandoci le stesse emozioni ma addirittura amplificate se vogliamo, forse anche grazie alla mia maggiore competenza nella lingua inglese rispetto a tanti anni fa, che mi ha permesso di assaporare meglio tutte le scene, gli episodi, i racconti, i non detti.
Essendo a conoscenza del fatto che il romanzo è stato anche trasposto sul grande schermo (2010, regia di Mark Romanek), ieri mi sono concessa la visione del film, ma le aspettative sono state deluse. Non c'è modo che il film possa essermi piaciuto più del libro. Anzi, mi sono anche un po' annoiata e, più che per altro, l'ho visto tutto per il piacere di notare le differenze o le analogie con il romanzo.
Be', si sa, trasporre un libro sullo schermo non dev'essere per niente un'impresa facile. Un sacco di scene devono essere tagliate o anche modificate dall'originale allo scopo di rimanere entro i limiti di una normale durata filmica. Sebbene il film si sia mantenuto abbastanza fedele alla maggior parte delle scene descritte nel libro, secondo me non se ne può dire all'altezza. Molte scene importanti, che nel mio immaginario di lettrice sono state addirittura indispensabili nel libro (come l'associazione della città di Norfolk con il posto dove vanno a finire le cose perdute nel tempo, diversi passaggi della storia dell'amicizia fra Ruth, Kathy e Tommy, anche lo stesso modo in cui Kathy viene a impadronirsi della musicassetta contenente il pezzo da cui prende titolo il libro, e tanti altri momenti) nel film erano inesistenti o portate verso tutt'altra direzione per necessità di tipo tecnico.
Inoltre il film in sé mi è sembrato privo di slancio, spento, troppo cupo e triste (la drammaticità della storia nel film è esasperata anche nella fotografia, nei colori, nei paesaggi, nei movimenti lenti). Il libro mi ha trasmesso una forza decisamente diversa, più vera e più reale.
Sinceramente, quando un libro mi piace così tanto non credo ci sia modo di trovare lo stesso piacere nella visione del film. I film tratti dai romanzi diventano spesso riduttivi e approssimativi. I libri, invece, contengono in sé un mondo intero che si nutre, inoltre, dell'insaziabile immaginazione dei lettori.
Never let me go è qualcosa di speciale. Un grande capolavoro della letteratura inglese che merita tutto il tempo che prende.
È una storia in cui a farla da padrone è un destino ineluttabile. Ma è umano: anche quando tutto sembra inevitabilmente predestinato, l'uomo serba inconsciamente delle speranze, o magari si crea delle fantasie che gli rendano anche più spianata la strada.
La bellezza di questo libro, a mio avviso, risiede nei flashback così sapientemente dosati e curati, nei quali il lettore si immerge totalmente e diventa protagonista in prima persona. Le memorie diventano come mattoni posti su altri mattoni, tasselli legati ad altri tasselli, fino a creare un quadro esaustivo di che cosa sono state l'infanzia e l'adolescenza di Kathy, Ruth, Tommy e, insieme a loro, di tutti gli altri ragazzi accomunati dallo stesso crudele destino.
La dolcezza dei ricordi è disarmante: il lettore ne resta avvinghiato e affascinato, non c'è scampo alla forza di quelle parole che ti trascinano fino alla fine del romanzo con una potenza contro la quale non c'è resistenza che vinca.
Questa lettura è una lotta continua che non conosce sosta: si viene a conoscenza della vera natura - e quindi del destino - di questi giovani protagonisti quasi sin da subito, e quindi sin da subito si rimane implicati in un meccanismo di commozione, di rabbia e di impotenza, sebbene dall'altro lato ci siano anche queste dicerie, queste voci che circolano sin dai tempi di Hailsham e che si tramutano inevitabilmente in speranza, una speranza però vana, destinata al fallimento, creata dalla fragile fantasia di piccoli esseri che, a causa di un voluto "detto non detto", non possono comprendere appieno il significato delle loro esistenze, l'ineluttabilità del loro destino.
Eppure i nostri piccoli protagonisti, nonostante tutto, a Hailsham hanno potuto vivere, se non altro, un'infanzia felice e spensierata, che ha dato loro l'illusione di essere come tutti gli altri e di poter perfino sperare.
Un libro di una drammaticità disarmante. Ci sono stati diversi momenti, nel corso della lettura, in cui un groppone in gola non mi permetteva di continuare. Ishiguro ha creato un mondo fantastico in cui mi sono immersa in totale abbandono e concentrazione.
Solitamente non mi attraggono le letture distopiche o fantastiche, ma con Never let me go le cose sono andate diversamente. Lo comprai nel 2008 senza sapere che fosse un romanzo "fantastico" (non potevo capirlo da niente, la descrizione in quarta di copertina, chiaramente, non svela nulla) e solo per la voglia di leggere qualcosa in inglese, e già quella prima lettura mi regalò delle emozioni importanti. Oggi, a distanza di sette anni, lo rileggo ritrovandoci le stesse emozioni ma addirittura amplificate se vogliamo, forse anche grazie alla mia maggiore competenza nella lingua inglese rispetto a tanti anni fa, che mi ha permesso di assaporare meglio tutte le scene, gli episodi, i racconti, i non detti.
Essendo a conoscenza del fatto che il romanzo è stato anche trasposto sul grande schermo (2010, regia di Mark Romanek), ieri mi sono concessa la visione del film, ma le aspettative sono state deluse. Non c'è modo che il film possa essermi piaciuto più del libro. Anzi, mi sono anche un po' annoiata e, più che per altro, l'ho visto tutto per il piacere di notare le differenze o le analogie con il romanzo.
Be', si sa, trasporre un libro sullo schermo non dev'essere per niente un'impresa facile. Un sacco di scene devono essere tagliate o anche modificate dall'originale allo scopo di rimanere entro i limiti di una normale durata filmica. Sebbene il film si sia mantenuto abbastanza fedele alla maggior parte delle scene descritte nel libro, secondo me non se ne può dire all'altezza. Molte scene importanti, che nel mio immaginario di lettrice sono state addirittura indispensabili nel libro (come l'associazione della città di Norfolk con il posto dove vanno a finire le cose perdute nel tempo, diversi passaggi della storia dell'amicizia fra Ruth, Kathy e Tommy, anche lo stesso modo in cui Kathy viene a impadronirsi della musicassetta contenente il pezzo da cui prende titolo il libro, e tanti altri momenti) nel film erano inesistenti o portate verso tutt'altra direzione per necessità di tipo tecnico.
Inoltre il film in sé mi è sembrato privo di slancio, spento, troppo cupo e triste (la drammaticità della storia nel film è esasperata anche nella fotografia, nei colori, nei paesaggi, nei movimenti lenti). Il libro mi ha trasmesso una forza decisamente diversa, più vera e più reale.
Sinceramente, quando un libro mi piace così tanto non credo ci sia modo di trovare lo stesso piacere nella visione del film. I film tratti dai romanzi diventano spesso riduttivi e approssimativi. I libri, invece, contengono in sé un mondo intero che si nutre, inoltre, dell'insaziabile immaginazione dei lettori.
Never let me go è qualcosa di speciale. Un grande capolavoro della letteratura inglese che merita tutto il tempo che prende.
Simona
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