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Insegnante di inglese appassionata di scrittura e di fotografia e profondamente innamorata degli animali. Questo blog è un ampio rifugio in cui condivide passioni, letture, riflessioni, novità sui suoi libri e molto altro. INSTAGRAM: @simona_giorgino (profilo autrice), @photosfromthewind (profilo fotografico).

giovedì 23 dicembre 2010

Il sergente Beccaria

“Cosa ha dichiarato, lui?”
“Nulla. Solo che è il capitano del reparto di Torre Sabaudo, ai colli”
“Dirà tutto a me, vedrai, quando lo interrogherò e lo guarderò negli occhi, puntandogli questa pistola alle tempie”. Parlava con orgoglio, il tenente Basso, facendo roteare tra le mani l’arma con cui avrebbe ucciso il suo più grande nemico. Erano entrati in guerra molte più volte di quante fossero state quelle ufficiali. Il tenente Basso e il capitano Montechiaro erano stati già rivali, in passato, ed in altre, diverse circostanze.
Il tenente non aveva mai dimenticato le ferite che il capitano gli aveva inflitto.
“Quando diventerai qualcuno, qui”, diceva al suo allievo sergente Beccaria, “allora saprai il valore, il significato della parola onore. Mi sono fatto onore nella mia vita. Sempre ho difeso i diritti dei più deboli, e sempre lo farò”
“Chi è il debole, oggi, tenente?”
“Io, sergente Beccaria. Il debole da difendere, oggi, sono io. Che ho patito per lui”, diceva, sfiorando con un dito il suo occhio ferito e ricoperto da una benda.
Il sergente lo aveva guardato con compassione, prima di pronunciare le sue ultime parole.
“Tenente, lei non ha mai pensato al perdono?”, e lo chiedeva pentendosi di averlo fatto, prevedendo già la risposta e il sentimento del suo interlocutore.
“Si”, rispondeva il tenente Basso, “Certo, sergente Beccaria, che ci ho pensato. Ma tu cosa faresti, al posto mio? Lo abbiamo catturato, è nelle nostre mani. Mi ha rubato metà della vista! No, che non lo perdonerei. Specialmente in tempo di guerra”.
Il sergente stava zitto, non aveva più le parole. Il tenente, invece, lui di parole ne aveva troppe. E parlò, parlò al sergente Beccaria per più di un’ora, parlò di sé e della sua sventura con il suo occhio destro.
Il sergente lo guardava, impietrito. Le parole “Mi ha rubato metà della vista” gli risuonavano nelle orecchie. Con odio, le aveva pronunciate, il tenente Basso. Con odio. Era sicuro, il sergente, che presto, questione di giorni, il capitano Montechiaro sarebbe stato ucciso con lo stesso odio con cui erano state pronunciate quelle parole.
Hanno insegnato ad ammazzare per la patria, a difendersi dagli attacchi del nemico. Ma una cosa, il sergente Beccaria, non l’aveva mai capita. Perché sul perdono non era mai stata spesa neanche una parola?

Il mattino seguente il sergente Beccaria si svegliò di buon’ora. Rimase a letto per un po’, con lo sguardo fisso nel vuoto, mentre i suoi compagni ancora russavano al suo fianco. Il vuoto gli parlava solo di una parola: perdono. Temeva, il sergente, e non sapeva neppure di cosa. Temeva di fare del bene per ricevere del male, ma più di tutto temeva il rimorso.
Solo metà, della sua vista, gli era stata rubata, non per intero. Un occhio ancora gli funzionava. La sua vita era stata comunque agiata, anche senza un occhio. Il tenente aveva una bella moglie, dei figli che andavano a scuola e prendevano dei buoni voti, una buona posizione sul lavoro. Non avere un occhio non gli aveva impedito di costruirsi una vita.
Il capitano Montechiaro aveva una moglie anche lui e, per quanto si potesse saperne, avrà potuto avere anche lui, quindi, dei figli dalla sua donna.
La vita era una condizione necessaria per entrambi. Per entrambi.
Cosa temeva, il sergente Beccaria? Temeva di aver saputo e, nonostante questo, non aver agito.
“Quando diventerò qualcuno qui, signor Tenente, quando io diventerò qualcuno qui”, avrebbe voluto dirgli “non parlerò solo di morte, di vendetta o di onore. Parlerò anche di perdono, di misericordia”, ma aveva finito le parole.

Si alzò dal letto con un solo balzo, s’infilò subito i calzoni, gli anfibi, la giacca a vento. Uscì per avviarsi ai colli che era ancora l’alba. Il cielo sembrava inghiottirlo tra il rosa e l’azzurro delle sue sfumature.
Arrivava a Torre Sabaudo che qualcuno, già, era in piedi. C’erano due guardie. Veniva accolto da una di loro e veniva interrogato circa la sua visita. Il sergente aveva portato delle informazioni importanti di cui avrebbe parlato solo al capitano del reparto.
Ci vollero pochi minuti perché questi arrivasse. Un uomo calvo, con il viso paffuto ed un sorriso beffardo.
Non si erano scambiati molte parole. Il sergente Beccaria aveva dato al capitano un biglietto con delle coordinate e delle informazioni precise e vitali.
“Perché lo fai, ragazzo?”
“Per misericordia, sir”
“Che Dio ti benedica. Questo, tuttavia, fa capire qualcosa: qui non è il tuo posto. Qui, in guerra poi, la misericordia pochi sanno cos’è. Non c’è tempo per amare il nemico, intesi? Imparalo bene. Qui, di tempo per amare il nemico, non ce n’è”.

Il sergente tornò alla base, prima che qualcuno potesse accorgersi della sua assenza.
Quando il capitano Montechiaro fu liberato dalla sua cella, nessuno lo vide. Le coordinate erano state perfettamente rispettate. Durante la cena presso la mensa, quella sera stessa, il tenente Basso ed il sergente Beccaria si erano incontrati per la prima volta dopo l’accaduto.
Non ci furono parole, ma solo uno sguardo, indifferente e intimorito da parte del sergente e malvagio, carico d’odio, da parte del tenente.
Una cosa non aveva ancora avuto il tempo d’imparare, il sergente Beccaria: non c’è tempo per amare il nemico, in certi casi. E questo, sicuramente, era uno di quei casi.

S. Giorgino


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